sito

storico

Archivio storico

                   5permille

   

di Mauro Palma

La Stampa, 26 marzo 2024

Un suicidio in carcere; un altro. Evitiamo di ripetere stancamente il computo delle vite perse all’interno di questa Istituzione della nostra collettività; riflettiamo piuttosto sulla responsabilità della continua oscillazione tra i due poli dell’efficace risposta alla commissione di un reato e dell’assoluta tutela dei diritti che la nostra Costituzione afferma per tutti, incluso il diritto a che la sanzione sia finalizzata a ciò che la Carta indica. La debolezza della risposta sociale e istituzionale è proprio nell’incapacità di tenere insieme queste polarità e di considerarle invece separate, aderendo più all’una o all’altra a seconda del periodo e del ciclo politico. La difficoltà individuale si colloca all’interno della percezione di questa oscillazione.

Un suicidio in un contesto istituzionale è l’espressione del linguaggio estremo dell’insopportabilità di una situazione; indica la prevalenza di questa sensazione, se non la sua unicità, tale da portare a preferire il non esserci piuttosto che vivere il presente. Non è un linguaggio afasico, esprime piuttosto un urlo e interroga su quali siano i fondamenti di quell’insopportabilità che rendono il proprio sé stesso, il proprio corpo e, infine, la propria esistenza, unica voce udibile. Quando si ha la responsabilità del bene fondamentale di una persona - la sua libertà personale, bene altrimenti inviolabile - esiste un oggettivo dovere di interrogarsi per valutare quanto si è inciso su tale percezione di inutilità della propria vita e quanto tutto ciò avvenga oggettivamente, al di là dell’impegno delle singole persone che hanno avuto compiti diretti rispetto alla persona che ha rinunciato a vivere. Lo sguardo va allora a come la collettività vede il mondo del carcere: esterno, non appartenente al contesto collettivo se non per il desiderio di prevenire e punire. Una collettività che non sembra affrontare come urgente l’impossibile vita all’interno di un luogo chiuso, denso di minorità sociale, che ha meno di 49 mila posti regolamentari e che oggi contiene 61.198 persone ristrette - e qui l’aggettivo “ristrette” ha il duplice significato - dove in periodi recenti, anche a causa del sovraffollamento, la chiusura per molte ore nelle celle è divenuta sempre più prassi ordinaria. Eppure il tema sembra destinato ai pochi tecnici, a chi ha persone care detenute, a chi per spirito generosità o per studio ha familiarità con questi luoghi, a chi ne è amministrativamente responsabile, a chi vi lavora in una situazione sempre più difficile e tesa. Non tocca il confronto politico, se non per tenere il tema distante dal rischio di scarso consenso. Questo sguardo che non vede, forse perché assuefatto, la morte di un giovane, la cui fragilità era nota, senza essere riusciti a trovare per lui un posto meno inidoneo ad affrontare il suo bisogno; un posto a lui legalmente spettante. L’attesa talvolta uccide; non solo perché è anch’essa fattore determinante di quella insopportabilità, ma anche perché è indicativa di quella incapacità oltre quelle mura di prendere seriamente il proprio star male. E allora rimarrà solo l’urlo, suo o di altri, se non troveremo la forza di urlare che questo tema non è altro da noi perché attiene al significato profondo del definirci società civile.