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di Giovanna Ferrara

Il Manifesto, 8 settembre 2023

Il volume “La classe è morta. Storia di un’evidenza negata”, a cura di Pietro Barbetta (Mimesis) si basa sui ritratti rubati nei manicomi di Colorno, Gorizia e Firenze dalla fotografa e scrittrice. Il volume di Carla Cerati “La classe è morta. Storia di un’evidenza negata”, a cura di Pietro Barbetta (Mimesis, pp. 144, euro 15) riattualizza il portato che esplose nella lunga gestazione del 1968 in ordine alle istituzioni totali che, intanto, il filosofo Foucault andava sistemando in narrazioni nitide, capaci di dar conto di uno stato di cose che trasformava la cura in oppressione. Attorno a questo pensiero Franco Basaglia, e sua moglie, lanciavano la pionieristica impresa contro l’assetto manicomiale e, come una freccia che si conficca nella pietra, riuscivano in una rivoluzione degli istituti psichiatrici e in una rivoluzione culturale che si va erodendo man mano che passano gli anni, secondo anche il giudizio della figlia, Alberta Basaglia.

Il libro, composto dai ritratti di Carla Cerati rubati nei manicomi di Colorno, Gorizia e Firenze, dalle riflessioni del critico Jhon Foot, dalla postfazione di Silvia Mazzucchelli, dà conto, ripartendo da allora, del percorso di sgretolamento di ragioni e progetti di liberazione subiti dalla psichiatria, che si dibatte ora tra i dispositivi dei trattamenti sanitari obbligatori e si arena in reparti ospedalieri dove può capitare di morire legati al letto da cinte di contenzione, come fu per il maestro Franco Mastrogiovanni, colpevole declamatore di poesie in un mondo che non ne possiede. La classe è morta spiega quel brocardo basagliano secondo cui le persone si dividono in “quelle che hanno e quelle che non sono”: dalla lettura delle immagini (“èkphrasis o il punto di intensità che scaturisce dalla viseità, giacché ogni espressione del volto è espressione di potere”) si snodò un percorso fino alla legge 180, che sbarrò le porte agli istituti psichiatrici, riassumendo in sé il disgusto di più di una generazione verso l’oppressione dell’autorità, quando essa comincia ad avere per nemico la stessa soggettività, l’individualità non conforme, il non essere passivo. Il paziente perfetto è il paziente annientato, reso docile dai trattamenti-armamentario che ne fustigano la volontà fino a farlo scomparire.

Si legge come accompagnamento a una delle foto, che per scelta politica, non ha attributi autoriali, una frase di uno degli operatori: “controllare lucchetti e pazienti”, categorie non differenziabili dentro l’ontologia di “cose”. È anche un ritratto dell’architettura infernale dell’istituzione totale se, accanto agli internati, ci sono sbarre e bagni luridi, se essi vivono tra chiavistelli e squallore, se le loro mani sono nascoste nel nodo della detenzione di stoffa.

Di quella poderosa presa di coscienza basagliana, alla quale contribuirono le immagini letterarie di Primo Levi, di Frantz Fanon, di Erving Goffmann, ora raccogliamo i pezzi sparsi, poiché, appunto, “la classe è morta”. O forse perché essa non è mai stata così diffusa, così trasversale, perché forse l’oppressione non ha mai colpito così come ora le radici della vita, così vicine alle radici dell’insorgenza.