di Francesco Grignetti
La Stampa, 30 luglio 2024
Si muore, dietro le sbarre. Si contano almeno 56 suicidi nelle carceri italiane dall’inizio dell’anno, a cui andrebbero sommati i due suicidi avvenuti nei Cpr, i centri per il rimpatrio. Ma tantissimi sono i tentati suicidi, sventati solo all’ultimo istante. E poi i casi di autolesionismo. E le liti, le risse, le aggressioni. Un clima umano invivibile, dove il caldo e il sovraffollamento di questa estate incidono moltissimo. E così denunciano molti Garanti territoriali per i diritti dei detenuti. Quella di Roma, Valentina Calderone, ha spiegato ieri che nel solo carcere di Regina Coeli il sovraffollamento è cresciuto del 180% in un anno. “Ma quando si dice sovraffollamento - dice Carlo Renoldi, magistrato di Cassazione, penultimo direttore del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ai tempi del governo Draghi - non si deve pensare solo e soltanto ai disagi materiali, che nessuno può negare. Sovraffollamento significa un’amministrazione sopraffatta dai numeri, dove non si riesce più a garantire nemmeno l’ordinario”.
Trattandosi di carceri, significa che i detenuti passano tante più ore chiusi in cella, e ricevono solo silenzio alle loro istanze. Dice Renoldi, che qualche giorno fa ha tenuto un’audizione alla commissione Giustizia del Senato: “Certamente il suicidio è un fenomeno complesso, che non è il caso di banalizzare. Si può dire che il filo rosso che lega tante storie diverse è il senso di essere diventati invisibili agli occhi del mondo. E allora, tanto vale levare il disturbo. Possono essere mille le cause scatenanti. A volte, la decisione di un giudice che si reputa ingiusta. Altre volte, una moglie, che decide di interrompere ogni contatto. Con il tempo trascorso dentro, il mondo delle relazioni si disfa”.
È stato notato che moltissimi suicidi arrivano quando la pena sta per finire. Sono detenuti che non sopportano l’arrivo della libertà, perché per essi significa tornare al punto di partenza. “Sì, ed è la conferma di quanto dicevo. Ci sono giovani che non riescono ad immaginare il ritorno dai genitori perché provano la vergogna di essere ancora tossicodipendenti. Quelli che non hanno più una famiglia dove tornare, perché i figli non ne vogliono più sapere. Chi non aveva un lavoro prima, a maggior ragione non ci spera più. Molti si sentono inadeguati”.
Questo groppo alla gola del rientro nella società è ovviamente antico. “Infatti da direttore del Dap trovai una circolare sui cosiddetti “dimettendi”, coloro che sono sul punto di essere dimessi. Un passaggio notoriamente delicato. A maggior ragione andrebbero moltiplicati gli sforzi per la presa in carico. E invece, con i numeri che ci sono, tutto ciò diventa impossibile”.
Renoldi, insomma, rifiuta ogni meccanicismo. Non c’è un algoritmo che dice tot sovraffollamento, tot suicidi. I meccanismi dell’animo umano sono più complicati. Ma questo non scagiona lo Stato dalle sue responsabilità. “Occorre un sistema di ascolto. Perché dietro ogni suicidio ci sono i segnali e vanno colti. È ovvio che se la tua domanda di parlare con l’educatore finisce in fondo perché ce ne sono altre cento prima, e così con il comandante delle guardie, con il direttore, o con il magistrato, se cioè il tuo grido di aiuto non viene nemmeno visto perché dall’altra parte il personale è sempre più stanco e carente, ecco che scatta la sensazione di essere solo un numero e non più una persona. Si sta male. Si perde la propria identità. E questo è l’effetto più drammatico del sovraffollamento”.
Al Senato è in discussione il decreto Carceri del governo. Nessun premio in più per la buona condotta. Qualche miglioramento nelle procedure della magistratura di Sorveglianza. Sei telefonate al mese anziché quattro. Per Renoldi è davvero troppo poco perché le telefonate potrebbero aiutare a tenere quantomeno i fili dei rapporti familiari. “Il sistema penitenziario - ha spiegato nella sua audizione - si deve dotare di meccanismi di ascolto, per provare a intervenire. Ovviamente nella consapevolezza, che tutti dobbiamo avere, dell’estrema complessità di articolare risposte efficaci. Se la mia famiglia mi ha sostanzialmente abbandonato e io ho deciso di farla finita… gli interventi da realizzare sono di estrema complessità. Noi nell’agosto del 2022 facemmo una circolare che cercava di mettere in rete e attivare un’integrazione della risposta penitenziaria con quella dei servizi sul territorio. Che purtroppo in molte realtà manca del tutto”.