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di Tiziana Maiolo

Il Dubbio, 5 agosto 2023

Rinfacciare al Parlamento e al mondo della politica la propria incapacità a lavarsi e vestirsi ogni mattina senza l’aiuto di un magistrato, come ha fatto il dottor Edmondo Bruti Liberati, già capo della procura di Milano e anche del sindacato delle toghe, è una grande verità e anche una cocente umiliazione.

È pur vero, come l’ex magistrato ha scritto sulla Stampa e sul Dubbio, che nel caso della presentazione da parte delle opposizioni della richiesta di dimissioni della ministra Daniela Santanché il Parlamento non ha dato grande prova di sé. Quasi i deputati fossero a un corso di procedura penale al primo anno della facoltà di giurisprudenza, ha commentato il dottor Bruti Liberati con tono irridente e un po’ sprezzante, eccoli lì a disquisire di informazioni di garanzia e di carichi pendenti. Il che sarebbe non più di un peccato veniale.

La cosa più grave è che qualcuno (solo qualcuno, per fortuna) ha ipotizzato che si possa chiedere a un ministro in carica di andarsene qualora un giudice lo abbia rinviato a giudizio. E il principio costituzionale di non colpevolezza? Non scaricate su di noi magistrati, dice l’ex procuratore di Milano, questa responsabilità, che è solo di “etica politica”. In molti Paesi dell’occidente democratico importanti uomini di governo si sono dimessi quando un’inchiesta giornalistica ne ha disvelato una presunta “immoralità” di comportamento, a prescindere dall’inchiesta giudiziaria, al termine della quale molti sono risultati innocenti. Dovremmo compiacercene?

Alcune riflessioni sono indispensabili, anche perché il dottor Bruti Liberati vuol farci credere di vivere su un altro pianeta e non in Italia dove, come ha ben spiegato il presidente delle Camere penali Giandomenico Caiazza, il problema della responsabilità viene sempre richiesto, giustamente, ai soggetti politici, ma mai alle toghe.

E neanche a certi giornalisti di certe testate, che escono spesso vincenti da processi in cui giocano sempre in casa. Ma ci sono altri argomenti, che l’ex magistrato pare ignorare, nonostante i ruoli di vertice che ha ricoperto. Il primo è che in Italia non esiste più il giornalismo d’inchiesta, da quando molti cronisti hanno scoperto essere moto più comodo e redditizio fare gli scoop con le veline del pubblico ministero.

E da quando gli stessi pm hanno capitalizzato in pubblicità personale e carriera professionale il traffico di notizie coperte da segreto investigativo. Poiché stiamo raccontando una realtà che è sotto gli occhi di tutti, ci sembra strano che un magistrato prestigioso come Bruti Liberati non si sia reso conto di quel che sta succedendo da almeno trent’anni a questa parte. Né potrebbe mai descrivere una realtà diversa - visto che anche lui c’era a quei tempi- a chi ha svolto per vent’anni il ruolo di cronista giudiziaria a Milano.

C’è però un argomento che andrebbe ricordato invece alla politica, e soprattutto a coloro che, dopo aver letto qualche articolo sul Fatto o su Domani, chiedono a un ministro di dimettersi, sulla base, apparentemente, del famoso giornalismo d’inchiesta. Ma la verità è che queste notizie partono sempre da un’inchiesta giudiziaria. Il fascicolo del pm c’è sempre. Ed è inutile che ci si affanni a dire che si vogliono cacciare ministri non per l’inchiesta giudiziaria ma “per motivi di opportunità politica”. È così solo in apparenza, perché è il cane che si morde la coda. Poiché il cronista non è autonomo e le carte gliele dà il magistrato, è chiaro che le dimissioni vengono chieste solo in quanto c’è un’inchiesta giudiziaria.

Questa è l’Italia da almeno trent’anni, caro Edmondo Bruti Liberati. E lasciamo perdere un altro argomento, anche se non è secondario, ed è quello dell’” onorabilità”, che profuma tanto di spirito rousseauviano e di Stato etico. Qualcuno si è inventato persino un partito sull’ “onestà”, che spero non piaccia a un fiero militante di sinistra come lei. Ma due nuovi fatti sono accaduti intanto in questi giorni, la fuga di notizie su una denuncia presentata dal ministro Guido Crosetto ben nove mesi fa, e una dignitosa rivendicazione del deputato del Pd Piero Fassino sul significato di politica e della sua nobiltà, proprio in contrapposizione all’andazzo moralistico-demagogico di cui pare essere prigioniero quasi l’intero Parlamento.

Tanto che, a quanto pare, solo un deputato di Forza Italia, Roberto Bagnasco, gli ha dato solidarietà e sostegno in aula. Sulla vicenda del ministro della difesa non si può che prendere atto del fatto che siamo in presenza di ben due violazioni del segreto investigativo, una sulla rivelazione di una privata e legalissima retribuzione che l’ex dirigente d’azienda ha ricevuto da Leonardo, e la successiva sull’esistenza di un’inchiesta penale in seguito alla sua denuncia.

Ma si tratta di giornalismo d’inchiesta, ovviamente, nessuno ha passato le carte. Perché “è la stampa bellezza!”, direbbe l’ex procuratore Bruti Liberati citando Humphrey Bogart. Sul discorso tenuto da Piero Fassino alla Camera due giorni fa, il punto centrale non è sull’entità dell’indennità parlamentare, da lui esibita a dimostrazione del fatto che non si tratta di “stipendio d’oro”, su cui si sono scatenati i miseri moralismi di destra e di sinistra. Ma il coraggio di dire a voce alta, dopo trent’anni di umiliazioni e autoflagellazioni della politica, che mettersi al servizio della comunità è un fatto alto e nobile. A testa alta, con le “mani pulite” delle persone per bene, che non hanno bisogno del bollino blu di qualche toga per decidere se un ministro possa continuare a fare il proprio lavoro.