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di Leonardo Filippi*

Il Dubbio, 17 febbraio 2024

L’articolo su La Stampa dell’ex procuratore di Palermo e di Torino, Gian Carlo Caselli, prende inopinatamente posizione sul “caso Cavallotti”, gli imprenditori palermitani in causa contro l’Italia davanti alla Corte europea, la quale ha giustamente voluto chiedere chiarimenti sull’inquietante vicenda nella quale i fratelli Cavallotti, pur assolti in sede penale dalla partecipazione all’associazione mafiosa, si sono visti confiscare le aziende e ogni loro bene come misura di prevenzione perché indiziati di appartenere all’associazione mafiosa.

Stupisce, anzitutto, che un ex magistrato intervenga pubblicamente mentre si attende una sentenza del giudice, dal momento che è risaputo come sia buona regola astenersi da qualsiasi giudizio che potrebbe essere considerato una interferenza. Ma il merito del suo intervento è ancora più inquietante perché invita a evitare che “la conoscenza dei giudici della Cedu sia solo cartacea e finisca per imboccare percorsi autistici, discostandosi dal mondo reale e avvitandosi esclusivamente su astratte convinzioni”: l’affermazione è gravissima perché è un invito a disattendere gli atti processuali e a giudicare non si sa su quali elementi estranei al processo. È l’abiura della legalità processuale.

Caselli va oltre, perché sostiene che si tratterebbe di “due fatti distinti e separati”, cioè, se manca la prova del patto collusivo, resterebbe la “vicinanza, risalente agli anni ‘ 80, ai vertici di Cosa nostra” perché i fratelli Cavallotti erano riusciti ad “aggiudicarsi gare pubbliche, per ragguardevoli importi, proprio grazie a intercessioni mafiose o anche solo per la notorietà della protezione loro accordata dai massimi vertici di Cosa nostra”. In realtà il processo penale ha accertato che il boss Provenzano si assicurava della “messa a posto”, cioè della regolare esazione del pizzo, dai fratelli Cavallotti ed è notorio che chi è costretto a pagare il “pizzo” non è colluso con la mafia ma una sua vittima. Addirittura, uno dei boss che hanno testimoniato nel processo penale contro i fratelli Cavallotti ha dichiarato che gli imprenditori palermitani erano “oggetto di richieste di denaro da parte della mafia”, ma non “fiduciari” dei mafiosi e perciò sono stati assolti. Invece Caselli invita sostanzialmente a diffidare di chi è assolto nel processo penale, nel quale si è accertato che nessuna intercessione o protezione mafiosa vi è stata.

L’affermazione è shoccante perché significa delegittimare le sentenze dei tribunali, che appunto hanno assolto quegli stessi imputati dal medesimo fatto. E la frase ci ricorda quella, molto più brutale ed esplicita ma dallo stesso contenuto, di un altro ex magistrato, ora caduto in disgrazia, secondo il quale chi è stato assolto è un colpevole che l’ha fatta franca. E allora qui emerge tutta la contraddittorietà del cosiddetto processo di prevenzione, che, però, di “processo” non ha niente perché si chiede al giudice non di accertare un fatto (appartenenza all’associazione mafiosa) ma di convalidare il sospetto di polizia. Ciò che non torna, in un Paese normale, è che se un tribunale, nella pienezza dei suoi poteri di accertamento, in un regolare processo in cui accusa e difesa hanno avuto piena facoltà di prova, ha già sentenziato che quegli imputati non hanno partecipato all’associazione mafiosa, è contro la logica più elementare sottoporli alla confisca dei beni, che è senz’altro una sanzione. È il principio di non contraddizione che impedisce simili aberrazioni, per cui il giudice penale assolve e quello di prevenzione, per lo stesso fatto, confisca: innocenti eppure confiscati di ogni bene. Ma il codice antimafia italiano consente, purtroppo, un simile abominio, per cui lo Stato prima non riesce a proteggere i cittadini, che sono costretti a pagare il “pizzo”, e poi li sanziona come collusi con la mafia. Ecco perché i giudici di Strasburgo non comprendono e ci vogliono vedere chiaro.

*Avvocato, ordinario Università di Cagliari