di Luigi Manconi
La Stampa, 27 gennaio 2023
L’appello al Pontefice: è un uomo non innocente che soffre, il 41bis umilia i detenuti. La mancanza di contatti con altri esseri umani aumenta la tendenza al suicidio.
Caro Papa Francesco, vorrei parlarle di un uomo che soffre. Un uomo che non ho mai incontrato in vita mia e di cui conosco poco, ma di cui posso immaginare e quasi avvertire - tangibilmente - i patimenti, perché so dove egli si trova, come siano i suoi giorni e quale sia l’oppressione fisica, psichica e mentale cui è sottoposto.
Sono milioni, nel mondo, gli esseri umani che vivono il dolore più crudele, ma poi sono i nomi e i tratti del volto a farci sentire tutto il peso di ogni singola sofferenza. L’uomo di cui le parlo si chiama Alfredo Cospito. Per i parametri convenzionali, che sono fatalmente anche i miei, non è un innocente, ha commesso gravi reati e per questi ha subito condanne severe. Ora quest’uomo è in fin di vita, perché ha deciso di reagire a quella che considera una inaudita ingiustizia, mettendo a rischio la propria vita e sottoponendo il proprio corpo a un durissimo digiuno. Anche io considero una intollerabile iniquità la sorte alla quale sembra destinato, pure se è stato egli stesso ad avviarvisi intraprendendo lo sciopero della fame.
Cospito è al centesimo giorno della sua protesta. Ha perso oltre quarantadue chili e - come mi ha detto il suo medico di fiducia, la dottoressa Angelica Milia, - “si sta auto-digerendo, in quanto non ricevendo più introito proteico dall’esterno, lo sta ricavando dal suo corpo, in particolare dal suo apparato muscolare”. Si deve evitare che quella morte sopraggiunga perché, se così avvenisse, oltre a sopprimere una vita umana, ciò significherebbe confermare una concezione del sistema penale che contraddice i principali fondamenti della nostra civiltà giuridica. E che nega quella che è stata, negli ultimi decenni, la più intelligente elaborazione sulle categorie di pena e di carcere, per la quale il contributo del Magistero, suo e del suo predecessore, è stato determinante. Nel 2007, Joseph Ratzinger affermò: “Quando le condizioni delle prigioni non tendono al processo di riconquista del senso della dignità, con i doveri a essa correlati, le istituzioni mancano di perseguire uno dei loro fini essenziali”. Non penso in alcun modo che spetti a un’autorità religiosa giudicare sotto il profilo giuridico e normativo le leggi di uno Stato sovrano e laico, come è l’Italia, ma quella stessa autorità religiosa può valutare se un regime carcerario “tenda al processo di riconquista del senso della dignità”.
Ora, Alfredo Cospito si trova sottoposto, unitamente ad altri 748 reclusi (di cui 13 donne) a una forma di detenzione differenziata che umilia - in molte circostanze e per molte misure adottate - quella stessa dignità. Caro Papa Francesco, tra le sue riflessioni, trovo quelle che seguono e che interessano le ragioni per le quali mi sono permesso di rivolgermi a lei: “Con il motivo di offrire una maggiore sicurezza alla società o un trattamento speciale per certe categorie di detenuti”, il regime detentivo differenziato ha come sua principale caratteristica l’isolamento esterno.
Ancora, “la mancanza di stimoli sensoriali, la completa impossibilità di comunicazione e la mancanza di contatti con altri esseri umani provocano sofferenze psichiche e fisiche come la paranoia, l’ansietà, la depressione e la perdita di peso e incrementano sensibilmente la tendenza al suicidio”. Ecco, penso che quanto appena descritto non sia troppo diverso dall’attuale quadro clinico di Alfredo Cospito. Per questo ritengo che una sua parola possa essere utile affinché la vicenda di quest’uomo, oggi ridotto alla “nuda vita”, non cada nell’oblio. Con fiducia e speranza.