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di Mauro Giordano

Corriere di Bologna, 20 aprile 2022

“In merito alla morte di mio figlio continuo a pensare che non sia stata scritta tutta la verità. Resta per esempio irrisolto il perché quegli agenti di polizia abbiano agito in quel modo, qual era lo stato psicofisico nel quale operavano. E poi c’è stato chi ha ritenuto di non dover chiedere scusa”. Intervista a Lino Aldrovandi, mentre su Crime torna il caso di Federico in una serie dedicata ai genitori in cerca di giustizia.

Era il 25 settembre 2005, Federico Aldrovandi, 18 anni, morì a Ferrara - stando a quanto stabilito dai processi - per “eccesso colposo nell’uso legittimo delle armi” da parte di quattro poliziotti durante un controllo nel corso del quale morì soffocato a causa di una “asfissia posturale” dovuta allo schiacciamento al suolo da parte degli agenti. Le quattro puntate della miniserie “Nel nome del figlio” che da ieri sera tutti i martedì sono in esclusiva su Crime Investigation (canale 119 di Sky), sono storie di genitori che non si sono mai arresi alla morte, avvenuta spesso in circostanze misteriose e poco chiare, dei loro figli. Tra loro c’è Lino Aldrovandi, perché “Senza respiro” è stato il titolo della prima puntata.

Aldrovandi quali sono le risposte che mancano?

“Ci atteniamo agli atti processuali. Con questo lavoro cerchiamo che cosa non è andato nelle indagini iniziali e anche dopo. E poi resta sempre il grande dubbio su perché sia stato ritenuto un omicidio colposo e non preterintenzionale come minimo”.

Nacque l’associazione Federico Aldrovandi, ma nel 2019 le attività si sono fermate...

“Sì, soprattutto mia moglie Patrizia alla fine era molto stanca. È stata una vicenda dolorosa e con strascichi personali, ci siamo anche separati ma continuiamo a essere in ottimi rapporti. Si è creato per esempio un legame con Ilaria Cucchi e l’associazione dedicata al fratello Stefano. Lei venne a Ferrara a conoscere l’avvocato Fabio Anselmo, visto che si era già occupato già del nostro caso”.

La vostra è stata una battaglia anche contro i depistaggi e quella parte di società che non voleva riconoscere la responsabilità di uomini e donne in divisa...

“Il vero problema è che non hanno mai chiesto scusa. Riconoscere di aver sbagliato è un atto di intelligenza che aiuta a crescere. Chi difende a prescindere o dice “stiamo con tutti”, è dalla parte anche di chi sbaglia”.

Il volto di suo figlio continua a essere tenuto fuori dagli stadi in alcuni casi, sembra che faccia ancora paura. A chi? E perché?

“I tifosi del Bologna mi hanno segnalato che a San Siro non era stato permesso introdurre uno stendardo con il volto di Federico. Sui social continuo a tenere la luce accessa sulla sua vicenda. Secondo me vanno ancora fatti dei collegamenti su alcuni elementi. Questa verità, per me, non è quella definitiva”.

Lei è un ex agente della Polizia locale, ora in pensione. Si è riappacificato con la divisa?

“Penso di essermi confrontato con veri poliziotti, ma come in ogni campo non ci sono solo le persone normali e oneste. Tante cose all’inizio delle indagini su Federico vennero sbagliate o strumentalizzate, come quando veniva definito un “drogato”, che non era. Ma in nessun caso sarebbero dovuti intervenire in quel modo. Si sono chiusi a riccio”.