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di Luigi Manconi e Marica Fantauzzi

La Repubblica, 27 dicembre 2023

L’accertamento della verità, ossia delle circostanze che hanno portato alla morte di un uomo sotto custodia dello Stato, dei suoi apparati e dei suoi uomini, dovrebbe essere una priorità. “Domanda di giustizia” è un’espressione che verrà pronunciata ripetutamente nel corso delle prossime cerimonie di apertura dell’anno giudiziario. E indica un insieme di aspettative e richieste, provvedimenti e misure, servizi e attività che rappresentano la sostanza viva di ciò che i cittadini chiedono alle istituzioni del diritto e ai tribunali.

Ma “domanda di giustizia” è, nella materialità della vita collettiva e del dolore sociale, ciò che si esprime come richiesta di tutela dalle sopraffazioni e dalle iniquità. Qualcosa di molto concreto, che si misura attraverso il criterio di risposte altrettanto concrete o di rifiuti insensati; e attraverso la fatica di attese e dinieghi, di ore e giorni e anni.

I familiari di Stefano Dal Corso, con eccezionale determinazione, insieme al legale Armida Decina, hanno posto per sette volte una richiesta elementare di giustizia alla magistratura, sollecitando che sul corpo dell’uomo trovato morto in una cella del carcere di Oristano venisse effettuata una autopsia. Come si fa ormai anche nei più ordinari casi di incidente stradale. Per sette volte la magistratura ha risposto negando quel diritto a conoscere la verità su una morte ancora piena di misteri (ne ha scritto Andrea Ossino). Se, poi, da questa singola vicenda si ha la pazienza di risalire al quadro generale, si avrà la conferma di quanto quella domanda di giustizia resti tanto spesso disattesa e, di più, mortificata e oltraggiata.

Nel 2013 la Corte Europea dei Diritti Umani (Cedu) si rivolgeva al governo italiano con queste parole: “La carcerazione non fa perdere al detenuto il beneficio dei diritti sanciti dalla Convenzione. Al contrario, in alcuni casi, la persona incarcerata può avere bisogno di una maggiore tutela proprio per la vulnerabilità della sua situazione e per il fatto di trovarsi totalmente sotto la responsabilità dello Stato. In questo contesto, l’articolo 3 pone a carico delle autorità un obbligo positivo che consiste nell’assicurare che ogni prigioniero sia detenuto in condizioni compatibili con il rispetto della dignità umana, che le modalità di esecuzione della misura non sottopongano l’interessato a uno stato di sconforto né a una prova d’intensità che ecceda l’inevitabile livello di sofferenza inerente alla detenzione” (Causa Torreggiani e altri contro Italia).

In quell’anno, il sovraffollamento nelle carceri aveva raggiunto il record storico: al 31 dicembre del 2013, 62.536 persone risultavano recluse, a fronte di una capienza di 47.709 posti. Dopo la condanna della Corte Europea, si registrò una rapida diminuzione della popolazione detenuta, che tuttavia non è durata nel tempo. Dieci anni dopo, infatti, i dati aggiornati del ministero della Giustizia ci parlano di 60.116 persone attualmente recluse nel sistema penitenziario italiano.

Altro dato crudelmente significativo è il tasso di suicidi, costantemente in crescita e ormai di venti volte superiore a quello che si registra nella popolazione non detenuta. Lo “sconforto” di cui parla la sentenza della Cedu si traduce in patologia, senso di abbandono, abuso di psicofarmaci e, infine, autolesionismo e morte. Il carcere conferma così la sua natura di macchina criminogena e patogena, dove le storie individuali stentano a emergere, cancellate dall’anonimato dei processi di disumanizzazione.

Tra le tante, c’è, appunto, quella di Stefano Dal Corso, morto nel carcere di Oristano, nell’ottobre del 2022. Aveva 43 anni, era padre di una bambina e sarebbe tornato libero da lì a poco: e nessuna circostanza aveva fatto immaginare la volontà di togliersi la vita. Nonostante le contraddizioni, le incongruenze, le molte carenze nella ricostruzione dei fatti e nonostante una recente testimonianza che avvalora l’ipotesi di un violento pestaggio, come si è detto, la richiesta di autopsia è stata ripetutamente rifiutata. L’ennesimo appello - l’ottavo - a effettuare l’esame autoptico è di queste settimane. L’accertamento della verità, ossia delle circostanze che hanno portato alla morte di un uomo sotto custodia dello Stato, dei suoi apparati e dei suoi uomini, dovrebbe essere priorità dello Stato stesso, pena la crisi della sua legittimazione giuridica e morale.

Giovedì 28 dicembre si terrà un incontro nel quartiere romano del Tufello, dove Dal Corso è cresciuto e dove, da quell’ottobre 2022, si susseguono iniziative pubbliche per chiedere che questa storia non finisca nell’oblio. È un interesse dei familiari e degli amici di Dal Corso, ma - va da sé - è un interesse di tutti noi, cittadini di uno Stato di diritto.