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di Giuliano Foschini e Andrea Ossino

La Repubblica, 12 aprile 2022

La resa del ministero della Giustizia: “Per il Cairo il caso è chiuso”. Il giudice aggiorna l’udienza a ottobre. La famiglia: “Presi in giro”.

“Il 26 dicembre del 2020 la procura egiziana ha firmato un documento da intendersi come un decreto di archiviazione. Ritiene che questo provvedimento abbia natura decisoria irrevocabile ovvero che si tratti, con particolare riferimento alla responsabilità dei quattro imputati di una decisione non più suscettibile di impugnazione e che preclude la riapertura di un procedimento nei confronti degli stessi soggetti”. Con poche righe, depositate ieri dal Dipartimento per gli Affari di giustizia del ministero nell’udienza preliminare che avrebbe potuto sbloccare il processo per il sequestro, la tortura e l’omicidio di Giulio Regeni, l’Egitto ha messo nero su bianco quello che, purtroppo, da tempo era chiaro a tutti: non solo non ha mai collaborato con l’autorità giudiziaria italiana. Ma non ha alcuna intenzione di farlo. Dunque, se l’Italia vuole processare i presunti assassini e torturatori di Regeni deve scegliere una strada diversa da quella della collaborazione del Cairo.

Quale? I genitori di Giulio, Paola e Claudio, insieme con l’avvocato Alessandra Ballerini, provano a tracciarne una: “Siamo amareggiati e indignati dalla risposta della procura del regime di Al Sisi che continua a farsi beffe delle nostre istituzioni e del nostro sistema di diritto” hanno detto. “Ma a questo punto la politica è necessario faccia quello che deve: chiediamo che il presidente Draghi condividendo la nostra indignazione pretenda, senza se e senza ma, le elezioni di domicilio dei 4 imputati. Abbiamo appena assistito a un’ennesima presa in giro”.

Il riferimento, si diceva, era all’udienza preliminare che si è tenuta ieri a Piazzale Clodio in questo assurdo gioco dell’oca della (in)giustizia che è diventato il processo Regeni. Puntate precedenti, in sintesi: rinviati a giudizio dopo un lungo lavoro della procura di Roma con il procuratore aggiunto Sergio Colaiocco, il processo ai quattro agenti egiziani sotto accusa non è potuto cominciare perché la Corte di Assise di Roma, a differenza di quanto stabilito dal gup, ha ritenuto che senza notifica degli atti il dibattimento non potesse partire.

Il punto è che la notifica non era avvenuta non per un errore. Ma perché non era stato possibile farla. L’Egitto non ha mai voluto consegnare al nostro Paese gli indirizzi degli imputati. E i giudici non hanno ritenuto sufficiente che la notizia del procedimento, con i nomi degli imputati, fosse ovunque. “Il nostro ordinamento” hanno detto, in sintesi, “tutela il diritto di difesa degli imputati”. E non importa che scappino, come nel caso degli egiziani, dal processo. Senza indirizzi non si può cominciare.

A smuovere le acque ci ha provato direttamente la ministra della Giustizia Marta Cartabia che ha inviato il direttore della cooperazione italiana in Egitto e si è detta disponibile a un viaggio al Cairo. Niente da fare. Com’è spiegato nel documento presentato ieri, l’Egitto ha chiuso tutte le porte. E ora? I carabinieri del Ros sono riusciti ad acquisire l’indirizzo del lavoro dei quattro ma è necessario il domicilio. Ci riproveranno con l’aiuto anche dei nostri servizi di intelligence. Ma il percorso è impervio. C’è poi la politica, che promette ulteriori passi. Come sempre in questi sei anni in cui però nulla è accaduto. La prossima udienza si terrà il prossimo 10 ottobre. “Noi non ci arrenderemo” dicono i Regeni. E questo è certo.