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di Marina Pupella

Avvenire, 11 agosto 2023

L’impegno del presidente del Tribunale dei minori: “Tanti detenuti mi scrivono e sognano un domani diverso per le loro famiglie”. I frutti del progetto “Liberi di scegliere”. Viaggio nella città dopo l’allarme sui baby-criminali. Il racconto del giudice Di Bella, che cerca di allontanare gli adolescenti dalla seduzione delle mafie. La procura etnea e Libera: percorsi per le mogli dei capiclan.

“Maledetta quella mattina in cui mi sono svegliato e ho ucciso un uomo. Potessi tornare indietro. Ora salvi mio figlio, faccia che abbia un destino diverso dal mio e soprattutto lo aiuti a cambiare mentalità. Quando viene a trovarmi in carcere, pensa che io sia un mito, mentre invece sono un fallimento”. È la fragilità dell’uomo, l’ammissione delle proprie colpe, in perfetta antitesi con il ruolo di capomafia, ad emergere nelle confidenze fatte da un boss catanese al 41 bis al presidente del Tribunale dei minorenni del capoluogo etneo, Roberto Di Bella.

Basterebbe riportare quelle parole sui muri della città - balzata alle cronache per diversi fatti delittuosi, tanto da richiedere l’intervento del ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi - e in particolare nei quartieri ghetto di San Cristoforo, San Berillio, Villaggio Sant’Agata, Picanello e Librino, per far comprendere alle giovani e incoscienti leve della criminalità che il suo non è un “modello” da seguire. Un messaggio forte per i carusi, i ragazzi, che intraprendono la strada senza luce del crimine, sfruttati dalle organizzazioni nelle loro miniere di droga.

Lo testimonia l’operazione “Quadrilatero” dei carabinieri di Catania del settembre 2021, che ha sgominato un vasto giro di cocaina, crack e marijuana nello storico rione San Cristoforo, dove bambini di 10 anni venivano usati nello spaccio con il compito di incassare i soldi e indicare ai clienti dove ritirare la sostanza stupefacente. “Qui i ragazzi hanno il mito di Nitto Santapaola - spiega il presidente Di Bella - “ma sapete chi è oggi?” gli chiedo.

Un vecchietto ultra ottantenne, malato che non può abbracciare i figli e morirà nel chiuso di una cella. C’è un trend preoccupante di reati predatori contro il patrimonio - prosegue - o legati allo spaccio commessi da minorenni, talvolta non imputabili in quanto di età inferiore ai 14 anni e per questo utilizzati dalle storiche famiglie mafiose del territorio come pusher o vedette delle piazze di smercio”.

Le confessioni dei padri Di Bella è il padre del protocollo “Liberi di scegliere”, già ben collaudato a Reggio Calabria, dove il magistrato è riuscito a offrire l’opportunità di una vita diversa ai figli dei capibastone calabresi. Dopo il suo arrivo a Catania nel 2020, ha ripetuto l’esperienza reggina, aiutando ragazzi che per discendenza di sangue avrebbero sostituito i padri all’interno dei clan o spacciato per riscattarsi dalla miseria e dalla povertà dei loro quartieri, tenuti ai margini della città mercantile dei saperi e delle professioni. “Mi scrivono tanti detenuti, alcuni di loro per narcotraffico e ai vertici delle organizzazioni - racconta il giudice.

Due sono al 41 bis e mi chiedono espressamente di allontanare i loro figli dal territorio. Il dato comune che emerge è una profonda sofferenza. Altro che miti invincibili - esclama - dopo 10 anni di carcere duro, vedo queste persone in tutta la loro umanità dolente. Manifestano il rimpianto di una vita sprecata, ma non possono pentirsi, prigionieri del loro sistema, della posizione che ricoprivano, ma soprattutto non vogliono mettere a rischio i familiari.

Si rammaricano di non essere andati a scuola o di essere stati ritirati dai genitori a causa delle faide fra famiglie. Ho sbagliato - mi dicono - ma non voglio che i miei facciano la mia stessa fine”. Così un irriducibile ha deciso di collaborare. Dal 2012 ad oggi tra Calabria e Sicilia 150 ragazzi sono rientrati nel progetto “Liberi di scegliere”, beneficiando anche di misure alternative alla detenzione. Con la Procura etnea retta da Carmelo Zuccaro, si lavora in sinergia e sei mogli di capi clan, coinvolte in inchieste giudiziarie e destinatarie di misure cautelari, seppur lievi, hanno chiesto di essere allontanate dall’Isola.

Oggi con il protocollo “Di Bella” e con il sostegno dell’associazione Libera, lavorano e hanno iniziato una nuova vita. Povertà educativa e dispersione scolastica sono all’origine della devianza minorile. Gran parte dei ragazzi, provenienti da quelle aree considerate off limits, che incappano nella giustizia sono analfabeti o hanno un bassissimo livello di scolarizzazione. A 13-14 anni non sanno firmare e non conoscono la lingua italiana.

I dati Istat Openpolis 2021 attestano che il 25,2 per cento di ragazzi dai 6 ai 18 anni elude l’obbligo scolastico, una vera bomba sociale. Il riscatto e le due città Di qui su impulso degli uffici giudiziari di via Franchetti, l’istituzione in Prefettura di un Osservatorio di monitoraggio della condizione minorile, con la partecipazione di tutte le istituzioni cittadine, ivi comprese la diocesi catanese, l’Inps e il terzo settore. Fra i primi provvedimenti adottati, l’esclusione dal reddito di cittadinanza dei genitori che non mandano i figli a scuola. Come conseguenza, se nel 2020 le segnalazioni delle scuole erano una quarantina oggi sono salite a 998, con il Tribunale dei minorenni che comunica all’Istituto di previdenza 400 casi inadempienti. In 200 si sono visti ridurre il sussidio mentre altri ne sono stati esclusi.

“A Catania insistono due città che non comunicano tra loro - spiega il catanese Claudio Fava, già presidente della commissione regionale Antimafia, che nel 2022 ha svolto un’inchiesta sulla condizione minorile in Sicilia -. Si è alzato un muro invisibile, che ha fatto sì che l’ascensore sociale si fermasse definitivamente agli ultimi piani. Le periferie sono cresciute all’insegna della precarietà. Luoghi in cui le scuole, spesso ospitate in strutture fatiscenti ai limiti dell’inagibilità, rappresentano l’unico presidio istituzionale. Fuori da quelle aule, il deserto. E migliaia di ragazzi sono chiamati a prendere, troppo presto e da soli, decisioni cruciali per il proprio percorso esistenziale. Lungo i bordi di quel percorso, la capacità di seduzione e di reclutamento della criminalità organizzata, spesso l’unica alternativa alle cronache di disagio familiare”.

Non tutto sembra perduto. Un sonoro schiaffo alla mafia, che pretende in quei quartieri i giovani crescano nei disvalori della cultura criminale e associativa, lo ha dato il Club “I Briganti rugby di Librino”, una delle realtà sociali e sportive più attive nella zona. “Non abbiamo l’aspirazione di recuperare nessuno, vogliamo solo offrire un’opportunità per allargare i loro orizzonti - riferisce Piero Mancuso, uno dei soci fondatori - e farli uscire sia dal circuito criminale ma anche dall’immagine riflessa del ragazzo di quartiere, senza alcuna possibilità di salire la scala sociale. Giocano con noi 250 giovani e a settembre, la squadra femminile di rugby, le Brigantesse, saranno in serie A.

Un risultato impensabile prima e un’importante possibilità di riscatto e di emancipazione. Quella stessa raggiunta da alcuni che, entrati nel club da piccoli, oggi sono allenatori e dirigenti. Il nostro lavoro può infastidire, come dimostrano l’incendio della club house e del pulmino, ma noi andiamo avanti e a breve con i fondi del Pnrr, nascerà sulla collina di San Teodoro a Librino un parco sportivo e una Cittadella del rugby”.