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di Pietro Grimaldi

L’Identità Sicilia, 20 marzo 2024

Si alza e di molto la soglia di gesti estremi nelle carceri italiane. Il direttivo della Camera Penale di Catania Serafino Famà, con in testa il suo presidente l’Avvocato Francesco Antille, con un comunicato alza l’attenzione verso un problema ormai di vasta proporzione: “In questi giorni si sono verificati gli ultimi suicidi carcerari. Il loro numero non conta più anche in ragione del fatto che molti sono stati salvati in extremis; altri sono solo feriti; altri ancora, purtroppo, stanno aspettando il momento giusto.

L’universo carcerario italiano rivela tutta la sua fragilità colpevole. Il legislatore non inizia alcun serio percorso di rivalutazione di molte condizioni che potrebbero disinnescare questa bomba ad orologeria. Abbiamo il dovere di denunziare i temi più scottanti di questa tragica questione che coinvolge addirittura l’essenza stessa della civiltà del nostro Paese. Non si può restare anni in carcere in attesa di una decisione; non si può attendere la fissazione di un appello cautelare per mesi e mesi; non si può concepire più un sistema che ha deliberatamente disconosciuto la riforma della custodia cautelare. Non si è voluto comprendere che la maggior parte degli imputati dovrebbe attendere agli arresti domiciliari la fine del giudizio.

Presso i lavori preparatori della Riforma si era rimarcato il concetto della residualità della misura intramuraria. Ebbene, questa regola civile viene ignorata da applicazioni e interpretazioni quotidiane che ne fanno scempio. Oggi, ad esempio, ci sono imputati che hanno confessato, che hanno ottenuto le attenuanti generiche dal Giudicante; che hanno trovato un immobile lontano anche dalla propria regione per potere sopravvivere; che hanno chiesto di essere controllati con un braccialetto elettronico. Ebbene no: poco importa se non ci siano in concreto esigenze cautelari di sorta. Poco o nulla importa tutto ciò. Egli “deve” restare in carcere. E con lui pure chi spesso versa in condizioni di salute preoccupanti.

Questi casi accrescono il numero dei disperati dietro le sbarre. Uno Stato che non si fa carico di tutto ciò non è uno Stato vero e proprio ma una accozzaglia di insensibilità. Il lavoro carcerario è difficilissimo e non tutti possono accedervi; il sotto-organico di tutti gli agenti, funzionari, medici , assistenti, deputati ad assistere quegli uomini che si sono imbattuti nell’iniziativa punitiva dello Stato, moltiplica le distonie.

Quasi tutte le strutture sono vecchie, non funzionanti, obsolete. Un’edilizia da ripensare tout court. Una magistratura di sorveglianza sovente poco attrezzata. Un oceano di adempimenti burocratici soffoca la ricerca di soluzioni adeguate ad ogni singolo caso. Siamo giunti al tempo in cui, purtroppo, non c’è più tempo. Il detenuto viene spesso collocato lontano dalla regione di provenienza e questo accresce l’angoscia, la preoccupazione del recluso. I servizi sociali andrebbero potenziati. Le comunicazioni con i familiari e i difensori rafforzate e disciplinate. L’orizzonte politico è incapace di esprimersi.

Noi chiediamo a gran voce che si compiano tutti gli accertamenti possibili per giungere alla verità su responsabilità, omissioni, forzature per ogni singolo suicidio. Che si metta mano a un riordino ragionato delle fattispecie produttive di detenzione. Si mettano in condizione di funzionare i servizi clinici e sociali. L’orologio continua a ticchettare: è il solo rumore percepibile e questo silenzio è inaccettabile, ingiustificabile”.