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di Raffaele Nisticò

calabriainforma.it, 2 marzo 2023

Il convegno di Fidapa con Laura Antonini presidente del tribunale di sorveglianza di Catanzaro e Rita Bernardini presidente di “Nessuno tocchi Caino”. Di cosa parliamo quando parliamo di detenzione femminile in Calabria? Di numeri ridotti, innanzitutto. Al 31 gennaio 2023 sono 25 le detenute a Castrovillari e 38 a Reggio Calabria, due delle cinquantacinque sezioni femminili distribuite nei quasi duecento istituti penitenziari italiani, essendo le carceri esclusivamente femminili solo quattro (Trani, Pozzuoli, Roma-Rebibbia e Venezia-Giudecca).

Sono, le detenute in Calabria, in una percentuale, il 2,5 per cento, ancora più piccola della pur ridotta percentuale del totale della popolazione carceraria femminile, che oscilla tra i 4 e il 5 per cento. Parliamo di condannate per pene tra i tre e i cinque anni, corrispondenti nella gran parte dei casi a reati contro il patrimonio e legati alla tossicodipendenza con sostanziali venature di disagio psichiatrico, talvolta confluenti nello stesso soggetto.

In sintesi provenienti dal larghissimo bacino del disagio sociale. Altro discorso per le detenute calabresi attinte da reati afferenti al 416 bis. Per loro la destinazione è direttamente fuori regione, più che altro in istituti del centro-nord, se va loro bene a Messina. In ogni modo, tutte devono scontare in partenza l’evenienza di vivere la loro detenzione in istituti pensati e gestiti al maschile. Per esigenze quantitative, essendo la popolazione carceraria maschile (oltre 50mila i detenuti a dicembre 2021) preponderante, ma anche per retaggio culturale che fino all’ottocento relegava le donne delinquenti nella minorità anche intellettuale e passibili pertanto di correzione più che di punizione.

Di tutto questo, dei dati ma anche di quanto ruota intorno alla detenzione femminile, si è occupato il convengo della sezione Fidapa di Catanzaro svolto ieri sera nella Sala Concerti del Comune, introdotto dalla presidente della sezione Laura Gualtieri, con larga partecipazione della camera penale di Catanzaro, rappresentata in varie funzionalità, rispettivamente saluti, relazione e conduzione del dibattito, dal presidente Valerio Murgano, dal direttore dell’Osservatorio camerale sulle carceri Orlando Sapia e dal segretario Francesco Iacopino.

Il fatto è che “le carceri occorre vederle”, diceva Piero Calamandrei, vedere e conoscere chi ci vive, chi ci lavora, e come ci si vive. Curioso che due tra gli intervenuti per porgere i saluti - ma più che salutare, tutti, compreso il nuovo presidente dell’ordine degli avvocati Vincenzo Agosto, hanno apportato veri e propri contributi al convegno - abbiano confessato di non essere mai entrati in un carcere femminile, pur avendo visitato più volte, per studio e lavoro, quelle maschili: il sindaco Nicola Fiorita e il presidente di Città Solidale padre Piero Puglisi, esponente della chiesa locale e del terzo settore.

Due realtà, queste ultime, che svolgono meritorie attività in ambito territoriale che contribuiscono ad alleviare concretamente la sensazione di solitudine confessata da Laura Antonini, presidente del tribunale di sorveglianza di Catanzaro, che la prende ogni qualvolta si trova a dovere e volere applicare le pur presenti misure alternative alla detenzione che il legislatore ha introdotto, in modalità e tempi successivi, soprattutto riguardo al rapporto genitoriale delle detenute, in carcere e fuori. Attualmente nelle carceri italiane ci sono solo 17 minori a condividere l’esperienza con le mamme detenute, con tutto quanto ciò possa voler dire in termini di benessere fisico e mentale del minore.

Antonini ha esplorato il bagaglio normativo di cui può servirsi il giudice dell’esecuzione nei due aspetti della vita in carcere delle detenute e degli strumenti a questo alternativi. Per il primo aspetto il giudice può fare ricorso al regolamento carcerario generale redatto dal Dipartimento ministeriale, così come al regolamento interno di cui ogni istituto è dotato, frutto di una Commissione paritetica, e anche risalire alle direttive europee in tema.

Per il secondo aspetto, le misure alternative, pur presenti nei diversi dispositivi degli articoli 146 e 147 del codice penale e nei successivi ampliamenti delle possibilità offerte dal 47 ter della legge penitenziaria e dal 47 quinquies della 62/2011 e rafforzate da recenti sentenze della Corte costituzionale, di detenzione attenuata e dei domiciliari, si scontrano con la realtà oggettiva delle strutture disponibili, della prassi operativa e del tessuto sociale esistente.

Ci sarebbero gli Icam, gli Istituti a custodia attenuata, ma sono cinque o sei in tutta Italia, per non parlare delle Case famiglia protette, ma son solo due, una a Roma e una a Milano. Per non dire che l’applicazione dei domiciliari, nel contesto di deprivazione materiale e sociale in cui si attua, nella maggior parte dei casi espone alla recidiva. Per questo è apparsa come salutare boccata d’ossigeno la previsione esternata da padre Puglisi dell’impegno di Città solidale nell’apertura di una o più strutture di accoglienza delle destinatarie di misure alternative, accanto a quanto già la Fondazione sta facendo nella sola Catanzaro per togliere dal circuito criminogeno una cinquantina di donne, non italiane in maggior parte.

La citazione di Calamandrei è stata offerta da Rita Bernardini, presidente di “Nessuno tocchi Caino”, accompagnata nel convegno dal segretario Sergio D’Elia e dalla tesoriera Elisabetta Zamparutti. Nessuno tocchi Caino è una lega internazionale per l’abolizione della pena di morte nel mondo, ma si occupa in permanenza anche di diritti civili e delle carceri in particolare. Bernardini, già segretaria del partito radicale, considerata l’erede politica di Marco Pannella, deputata Pd nella XV legislatura, ha al suo attivo numerosi scioperi della fame e innumerevoli visite in carcere. Assomma in sé, per dirla con l’avvocato Iacopino, un vero e proprio “tesoro esponenziale”.

Al numeroso e partecipe pubblico della Fidapa ha offerto episodi di vita, suoi e di donne costrette dietro le sbarre. L’ultimo posto in cui molte di esse dovrebbero stare, espressione finale e corporea di disagio sociale, disagio psichiatrico e tossicodipendenza.

È in piena sintonia con il titolo del libro di Gherardo Colombo suggeritole da Iacopino: “Il perdono responsabile. Perché il carcere non serve a nulla”, dedicato alla funzione criminogena che assolve in chiave di pulsione alla recidiva qualora, come avviene, non rientra nei dettami dell’articolo 27 della Costituzione nella parte in cui recita “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.

Difficile nell’attuale tendenza iperdetentiva segnalata da Orlando Sapia come terapia d’urto al disagio sociale montante. Difficile che la pena abbia funzione rieducativa in un clima culturale in cui prevale il desiderio di gettare le chiavi delle celle nella previsione miope che il condannato non ne esca più. Miope e fallace poiché il detenuto, prima o poi, esce. Anzi, “viene sbattuto” fuori dalla cella.

Sarebbe interesse della società che il periodo di detenzione coincida con la riammissione a pieno titolo del condannato nella società. “Lo Stato di diritto - ha detto con citazione Domenico Bilotti docente di diritto ecclesiastico all’Umg, che ha tirato le conclusioni - è veramente tale se la condanna penale sostituisce la morte civile, non quando alla condanna penale segue anche la morte civile” (cit. Sergio D’Elia).