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di Simone Alliva

L’Espresso, 9 luglio 2023

“Torturato perché gay: le guardie mi hanno staccato la pelle”. Unghie strappate, percosse, scosse sui genitali, sedie elettriche. Il racconto di chi è sopravvissuto a quelli che l’Occidente ha definito “campi di concentramento per omosessuali”.

Quattordici giorni di percosse. Colpito sui reni, alla testa, ai polpacci, con tubi di plastica e calci del fucile. “La pelle mi si è completamente staccata. A distanza di sei anni balbetto, ho attacchi di panico. È un male che ti entra dentro e non esce più”. Perdeva conoscenza, lo facevano riprendere e poi giù, ancora calci e pugni. Maxim Lapunov è qui per raccontarlo. Gli altri no. Dalle profondità delle prigioni cecene dove gli omosessuali vengono rinchiusi, torturati e poi ammazzati pochi riescono a fuggire, nessuno ci ha mai messo la faccia come Lapunov. Il caso internazionale è esploso nel 2017, dalle pagine del quotidiano dissidente russo Novaja Gazeta è rimbalzato in Occidente. I racconti dell’orrore hanno spinto la comunità internazionale a chiedere chiarimenti. Il Presidente della Cecenia, Igor Kadyrov che rappresenta il cosiddetto potere civile instillato da Vladimir Putin ha negato più volte. Non l’esistenza di quelli che l’Occidente ha definito “campi di concentramento per omosessuali”, ma l’esistenza degli omosessuali: “Qui in Cecenia non esistono”. Da Putin invece il silenzio.

In questo fazzoletto grande come la Calabria da decenni si consuma ogni tipo di violazione dei diritti umani con il benestare del leader del Cremlino. La storia del rapimento di Maxim è insieme banale e straordinaria. È banale perché chiunque può sparire nella Cecenia di oggi. Ed è straordinaria perché la sua sopravvivenza ha portato alla luce l’orrore delle persecuzioni Lgbt in Cecenia. Un inferno di unghie strappate, percosse, scosse sui genitali, sedie elettriche “è una reazione a catena, lo scopo è farti fare nomi di altri omosessuali, cercano questo” spiega Maxim. Lo incontriamo in un hotel in centro a Milano, in occasione del Pride della città meneghina. Invitato da Cig Arcigay e All Out.

È un ragazzone russo di origini serbe, ci racconta di Grozny, anticamente la più bella città del Caucaso del Nord. Oggi totalmente ricostruita dopo le due guerre sostenute da Putin come “operazione antiterrorismo”. “Sono andato a lavorare come animatore in Cecenia. Un ingaggio occasionale. Poi ho deciso di restare, aprire una start up. Organizzavo feste di tutti i tipi. Per bambini ma anche eventi per l’esercito. Avevo un sacco di clienti. Organizzavo feste e vendevo giocattoli e palloncini per strada”. Tutti conoscevano “Maxim dei palloncini”, una sorta di istituzione che ha affascinato la città nel giro di un anno. Quando parla di quei giorni, nei suoi occhi si accende una scintilla, le feste, l’amore della gente. È quando ricorda quel marzo 2017 che gli occhi si spengono: “Mi trovavo su Putin Avenue quel giorno” la strada più importante della capitale cecena, costellata di ritratti del presidente russo e del presidente ceceno, uno a fianco dell’altro. “Si sono avvicinati a me due uomini in abiti civili, pensavo fossero dei clienti, mi hanno detto di seguirli, avremmo parlato di affari. Appena mi sono avvicinato alla loro macchina sono sbucati altri due, mi hanno assalito. Ho iniziato a piangere, avevo paura. Urlavo. Le persone intorno si fermavano, mi avevano riconosciuto, chiedevano spiegazioni. Poi mi hanno spinto in macchina e sequestrato il cellulare. Cercavano chat, foto per dimostrare che ero gay. Dicevano che mi avrebbero ammazzato. Che ero lì per corrompere i ceceni. Devi rivelarci la tua rete di contatti, ripetevano.

L’operazione si chiama “zaciska”, la “pulizia”, una pratica utilizzata in Russia e che si propone di eliminare tutto ciò che è diverso - e quindi sbagliato - dalla faccia della terra, a suon di spedizioni punitive, sequestri, metodi non convenzionali e non riconosciuti in paesi democratici.

“Mi hanno messo una busta in testa, legata con dello scotch. Poco dopo mi sono ritrovato in questa caserma”. Un sotterraneo dove Maxim inizia il suo viaggio nell’inferno. “Per due settimane sono stato torturato ma anche costretto a lavare le altre celle con uno straccio e lì ho visto gli altri detenuti. La mia cella era minuscola, un loculo. Dormivo su pavimento sporco di sangue e defecavo dentro un cartone. Russo di origini serbe, ogni guardia mi detestava, faceva a gara per picchiarmi”.

Gli occhi di Maxim registrano tutto: 50 persone detenute, portate nella sala torture e costrette a confessare il nome di altri omosessuali. “Il tempo non esisteva. Nella cella accanto alla mia c’erano due uomini, accusati di aver ucciso un agente. Sapevano che non sarebbe mai usciti vivi. Eppure, tra una tortura e l’altra mi hanno raccontato come sopravvivere a quei giorni. Leggere l’orario con il cambio guardie oppure mi indicavano le guardie meno violente a cui poter chiedere cose semplici: un sorso d’acqua, l’uso di un bagno che non fosse quella scatola di cartone. So che questi due ragazzi sono stati uccisi subito dopo il mio rilascio”.

Ma non solo Maxim conosce nei giorni il sistema ceceno: “Le persone torturate venivano tenute dai sei agli otto giorni, dopo partivano le ricerche dei famigliari. Le forze cecene lo sanno chiedono il riscatto ma per le persone gay la situazione può solo peggiorare. Molti vengono restituiti alle proprie famiglie affidandosi all’arma classica, antica e brutale del delitto d’onore. Ai genitori la polizia cecena chiede di firmare un modulo: “Mio figlio /fratello (nome) ha lasciato la repubblica per lavorare a Mosca alla fine di febbraio. Reclami alla polizia cecena non ha”. Quando una persona gay viene catturata, viene torturata e minacciata fino a costringerla a collaborare con la polizia per organizzare finti incontri e adescare altre potenziali vittime. Rifiutare significa morire, o, nel migliore dei casi, ricevere l’ergastolo nelle prigioni russe. Questo a causa dei falsi reati che la polizia produce”.

La sua sopravvivenza è il risultato di una serie di coincidenze: l’essere un cittadino russo, soprattutto accettato e amato dalla propria famiglia che ha fatto di tutto per rintracciarlo: “Prima di rilasciarmi mi hanno forzato a toccare e imbracciare delle armi. Adesso le mie impronte digitali sono lì. C’è un report che mi accusa di omicidio. Un falso reato costruito a hoc, così se provo a denunciare o a tornare in Cecenia rischio la morte. Mi hanno liberato dopo due settimane. Durante quelle notti ho promesso che avrei fatto una cosa se fossi sopravvissuto: avrei sposato il mio compagno. Lo faremo ad agosto”. Insieme a lui ci sono gli attivisti di Crisis Group “Nc Sos”, organizzazione che dal 2017 aiuta la comunità Lgbt del Caucaso del Nord (tra queste la Cecenia) inserita nel registro degli “agenti stranieri”, la lista di oppositori che Mosca ritiene ricevano sostegno dall’estero. “Non c’è un numero esatto di morti. Molti vengono restituiti alle proprie famiglie affidandosi all’arma antica e brutale del delitto d’onore. Facciamo di tutto per salvare queste persone ma il Paese è avvolto in un silenzio disumano. L’Europa non continui a scegliere l’indifferenza”.

E anche Yuri Guiana, responsabile delle campagne di All Out: “Quello di Lapunov, non è l’unico caso che conosciamo. E non riguarda soltanto le persone Lgbt. Come dimostra il caso di Salman, eterosessuale arrestato perché sospettato di essere gay, le violazioni dei diritti umani delle persone lgbt+ in Cecenia continua e riguarda tutte e tutti. Per questo come All Out chiediamo a chi può di firmare la petizione per salvare Salman e non dimenticare quanto sta avvenendo ancora oggi in Ceceni”.