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di Goffredo Buccini

Corriere della Sera, 24 gennaio 2023

Per la Fondazione Ismu la legge Bossi-Fini è da superare. L’Ocse stima in Italia 6,3 infermieri ogni mille abitanti, mentre nel resto dell’Ue sono 8,3. E l’agricoltura ha bisogno di braccia. Potremmo chiamarlo il paradosso dei centomila. Servono almeno centomila immigrati stagionali l’anno per non far morire la nostra agricoltura e per “difendere la nostra sovranità alimentare”, ha sostenuto ancora di recente Ettore Prandini, presidente di Coldiretti non certo ostile al governo Meloni: una cifra persino al ribasso (c’è chi ne vorrebbe il doppio) che torna da tempo nelle valutazioni di parecchi imprenditori come salvagente per settori diversi dell’economia italiana. E tuttavia i centomila migranti sbarcati da noi nel 2022 sono considerati una soglia d’allarme dall’esecutivo di centrodestra e da non pochi analisti dell’accoglienza (allarme accentuato dai primi giorni del 2023 che hanno visto decuplicare gli arrivi). Il meccanismo è inceppato.

Leggi, ideologia, burocrazia - Un racconto senza sconti del disequilibrio tra domanda e offerta, di cifre che non quadrano e di leggi pigre o tardive, di occasioni perdute e di talenti sprecati si può trovare in un prezioso Libro Bianco della Fondazione Ismu (“sul governo delle migrazioni economiche”) a cura della sociologa Laura Zanfrini. Da uno scenario demografico penalizzante alla grande fuga dei nostri giovani meridionali (più di un milione in vent’anni, la vera migrazione che dovrebbe preoccuparci), dalla competizione difficile per un’immigrazione qualificata alla sua contaminazione con una subcultura dell’illegalità che strangola il mercato del lavoro, fino a un quadro normativo e burocratico che rende poco attrattivo il Belpaese per la “meglio gioventù” extracomunitaria: non è rassicurante il ritratto di un’Italia ancora in parte prigioniera di miti nazionalistici fasulli come l’omogeneità “etnica, culturale e religiosa”.

L’11% della popolazione attiva - Le forze lavoro immigrate sono ormai il 10,7% della popolazione attiva e il loro contributo al nostro bilancio è decisivo (144 miliardi di euro di valore aggiunto pari al 9% della ricchezza nazionale, secondo l’ultimo report annuale della Fondazione Moressa). Tuttavia, l’Italia non smette di comportarsi da trent’anni come se l’immigrazione fosse un’emergenza, continuando a percepirla, di volta in volta “come un fenomeno indesiderabile e da contenere nelle sue dimensioni, oppure come un serbatoio di manodopera flessibile e a buon mercato, estraneo alle strategie di riposizionamento competitivo e di rafforzamento dell’internazionalizzazione del sistema produttivo”, osservano Zanfrini e i suoi collaboratori. È la stessa normativa a coltivare la confusione tra rifugiati e migranti economici, spingendo i secondi verso quella porta laterale che è spesso l’unica via per il nostro mondo del lavoro: la clandestinità in attesa di una sanatoria.

Meccanismi obsoleti - È tempo, fuori da polemiche di fazione, di registrare come la legge Bossi-Fini, varata vent’anni fa in pieno furore anti-immigrazionista, abbia introdotto “un meccanismo del tutto irrealistico” nella filiera migrante-datore di lavoro: l’abolizione dell’ingresso tramite sponsor con relativo accesso regolare solo dopo l’intera procedura d’assunzione. “Risulta sostanzialmente impossibile al datore di lavoro verificare le capacità professionali e le qualità “umane” di un lavoratore la cui assunzione richiede, tra l’altro, di accollarsi impegni professionali particolarmente onerosi”, si osserva nel Libro Bianco. Le quote d’ingresso si sono trasformate così in uno “strumento di regolarizzazione dei migranti già presenti, facendo venir meno il carattere premiale della scelta di un percorso legale”. A ciò si aggiunga che, sempre per motivi meramente ideologici, l’Italia è diventata paladina dell’”opzione zero” sui flussi proprio mentre, per effetto delle crisi, altri Paesi europei la accantonavano. Il risultato più evidente di questa afasia politica è incentivare quel business illegale di ingresso che, a parole, si sostiene di voler stroncare.

L’espansione del lavoro povero - Questo contesto opaco si sposa con la cattiva qualità del lavoro italiano e la forte espansione del lavoro povero, con una spinta al ribasso che si nutre dell’assioma della complementarità, lo schema duale per il quale “i migranti fanno i lavori che noi non vogliamo più fare”, generando una struttura etnico-castale del mercato del lavoro, giocata sulla contrapposizione “noi e loro”. Se dunque la prima ricetta è più dignità e diritti nel lavoro di tutti, la seconda è rendere meno respingenti i confini europei, e segnatamente i nostri, a chi ha le carte in regola, specie ai profili sanitari. Per dire: l’Ocse stima in Italia 6,3 infermieri ogni mille abitanti mentre nel resto dell’Ue sono 8,3. La Corte dei conti italiana parla di personale infermieristico “pesantemente sottodimensionato” e solo per ottenere i soldi del Pnrr dall’Europa noi dovremmo assumerne trentamila nei prossimi tre anni: da dove?

Un’occasione mancata - Per motivi ideologici nel 2018 ci siamo tagliati fuori dal Global Compact for Migration, l’accordo intergovernativo nato sotto l’egida delle Nazioni Unite, smarrendo così un quadro di intese con Paesi terzi interessati sia a formare propri professionisti sia a esportarne una parte. Rincorriamo braccianti immigrati che diano respiro al settore agricolo ma abbiamo bisogno di misure ad hoc come il nullaosta pluriennale e le garanzie di alloggio per incentivarli.

Le nuove direttive europee - Siamo chiamati a recepire le nuove direttive europee più accoglienti sulla Carta Blu, il lavoro altamente qualificato. Con alcuni paletti di sicurezza e le dovute garanzie di rientro allo scadere di un permesso di soggiorno non convertito, si potrebbe introdurre un dispositivo di ingresso in Italia per la ricerca di lavoro. Fino alla regolarizzazione individuale, quando il lavoro è lì, via d’uscita in fondo al tunnel della clandestinità.

Il monito di Jerry Masslo - Ci vuole coraggio, visione del futuro. A chi gli chiedeva quale fosse il suo principale problema qui da noi, Jerry Masslo rispondeva: “Il problema economico! Immagina un uomo di trent’anni che vive senza nemmeno diecimila lire in tasca per un mese. Come pensi che si possa resistere?”. Era il 1989, lui scappava dal Sudafrica, morì nelle baracche di Villa Literno. L’Italia sembra ancora sorpresa come allora dal mondo in marcia a cui Jerry aprì la strada.