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di Ludovica Jona

Il Fatto Quotidiano, 10 marzo 2024

“Pazienti intrappolati nel gioco dell’oca della cronicità”. A cento anni dalla nascita di Franco Basaglia, si celebra l’uomo che rese l’Italia il primo - e finora unico - Paese al mondo a chiudere i manicomi, ma non c’è molto da festeggiare. I Centri di salute mentale (Csm) pubblici aperti h24 che il padre della legge 180 indicò come ingranaggio fondamentale di un’organizzazione alternativa agli ospedali psichiatrici, sono attivi in Friuli Venezia Giulia - dove la riforma psichiatrica iniziò già dagli anni Settanta - ma restano un sogno in quasi tutto il territorio nazionale. “Nella maggior parte delle regioni italiane sono presenti ambulatori psichiatrici aperti poche ore solo alcuni giorni alla settimana, oppure Csm non oltre le 12 ore per 5/6 giorni alla settimana”, dichiara Gisella Trincas, presidente di Unasam (Unione Nazionale delle Associazioni per la Salute Mentale). “Il processo di impoverimento e accorpamento dei Dipartimenti di Salute Mentale, che va avanti da oltre un decennio, favorisce le residenze private, pagate dalle Asl, dove vengono messe e - a volte - abbandonate le persone che soffrono di disturbi mentale”. Si tratta di circa 2mila residenze con 30mila posti letto: un mondo variegato che va “da piccole comunità, a grandi cliniche fino alle Rsa - perché anche lì vengono messi i pazienti psichiatrici di 40-50 anni, alcune volte anche più giovani, in mancanza di alternative”, spiega Trincas.

Il “gioco dell’oca” della cronicità - La permanenza in comunità terapeutica può essere preziosa quando è di breve durata, ma diventa drammatica quando l’uscita viene posticipata a tempo indefinito: “Alcune persone che hanno vissuto per 10 o 20 anni in strutture residenziali psichiatriche arrivano a chiederci il permesso di prendere un bicchiere d’acqua”, racconta Massimo Magnano, volontario di Sant’Egidio e medico della Asl Roma 4 che coordina un progetto per riportare le persone con disagio psichico a vivere in appartamenti integrati nella città. Si tratta di persone che sono rimaste intrappolate in quello che Piero Cipriano, psichiatra in un Spdc (Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura) di un ospedale romano, autore di diversi libri sull’argomento, definisce “gioco dell’oca della cronicità”: “La casella zero è l’Spdc, dove si fanno due settimane di stemperamento della crisi, poi si va in una di queste residenze per alcuni mesi (quando non diventano anni), poi si torna a casa, si va al centro di salute mentale a prendere i farmaci, magari si frequenta un centro diurno - dove si fanno prevalentemente lavoretti da vendere ai mercatini e altre cose infantilizzanti - quindi si ha una nuova crisi, si torna in Spdc, di nuovo in residenza, e così via”. Cipriano sottolinea come il Lazio sia “una delle regioni peggiori” in questo gioco per “la presenza storica di cliniche, degli ‘imprenditori della follia’, come diceva Basaglia, case di cura private che sono le stesse ancora oggi, dopo 40-45 anni”. Cipriano si riferisce a una definizione coniata da Basaglia nel corso delle conferenze che tenne in Brasile nel 1979: “Ci sono cliniche private che vivono sui matti - disse lo psichiatra veneziano - più matti, più soldi. Così, invece di diminuire, il numero dei malati mentali aumenta, grazie a questi imprenditori della follia”.

L’Iss: “Nelle residenze psichiatriche insufficienti trattamenti riabilitativi” - Le strutture residenziali, definite sulla carta “riabilitative”, dovrebbero ospitare le persone “per un periodo di tempo limitato di massimo 18 mesi” chiarisce Trincas. Tuttavia i dati del ministero della Salute mostrano che la permanenza media dei pazienti nelle strutture convenzionate è in aumento: dai circa due anni nel 2015 (756,4 giorni) agli oltre 3 anni nel 2022 (1124 giorni). Il recente studio dell’Istituto Superiore di Sanità “La residenzialità psichiatrica: analisi e prospettive” evidenzia come la crescente durata della permanenza in residenze sia legata a “insufficiente impiego dei trattamenti psicosociali” (psicoterapia, terapia psico-riabilitativa) e a “insufficiente dotazione di operatori formati all’impiego degli interventi riabilitativi sostenuti da evidenze di efficacia”. Emerge un quadro in cui la terapia farmacologica - data spesso in dosi massicce - risulta quasi l’unica cura. La legge prevede che ogni paziente inserito in residenza psichiatrica abbia un piano riabilitativo personalizzato, che indica anche il personale specializzato che dovrebbe essere coinvolto nella sua realizzazione. “Ma poiché i servizi pubblici territoriali generalmente non fanno - per mancanza di risorse - un costante controllo sui percorsi riabilitativi che vengono stabiliti sulla carta - aggiunge Trincas - spesso accade che non ci siano esiti positivi e così le persone passano da una struttura all’altra in un processo che anziché reintegrare nella società in percorsi emancipativi, diventa cronicizzante”.