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di Debora Alberici

Italia Oggi, 6 marzo 2024

Neppure se ha commesso reati molto pesanti (ad esempio un omicidio), afferma la Cassazione. La patologia deve esigere un trattamento sanitario non attuabile in regime di carcerazione. Chi è affetto da una grave depressione non può scontare il carcere neppure se ha commesso reati molto pesanti, un omicidio ad esempio. La Cassazione penale, sentenza 9432 del 5/3/2024, riconosce una patologia che impedisce di vivere dignitosamente. Ad avviso della prima sezione, ai fini del differimento facoltativo della pena, ai sensi dell’art. 147, primo comma, n. 2) cod. pen., o della detenzione domiciliare ai sensi dell’art. 47-ter, comma 1-ter, Ord. pen., la malattia da cui il detenuto è affetto deve essere grave, cioè tale da porre in pericolo la vita o da provocare rilevanti conseguenze dannose, o comunque deve esigere un trattamento sanitario non attuabile in regime di carcerazione, dovendosi operare un bilanciamento tra l’interesse del condannato ad essere adeguatamente curato e le esigenze di sicurezza della collettività.

Contrasto col senso di umanità - Gli Ermellini rincarano la dose spiegando che ai fini del differimento della pena, rilevano anche le patologie di entità tale da far apparire l’espiazione della pena in contrasto con il senso di umanità a cui si ispira la norma dell’art. 27 Cost., in quanto capaci di determinare una situazione esistenziale al di sotto della soglia di dignità che deve essere rispettata anche nelle condizioni di restrizione carceraria. Fra l’altro, la patologia psichica può costituire essa stessa una causa di differimento della pena, quando sia di una gravità tale da provocare un’infermità fisica non fronteggiabile in ambiente carcerario, o da rendere l’espiazione della pena in tale forma non compatibile, per le eccessive sofferenze, con il senso di umanità.

Carcere fonte di sofferenze aggiuntive - E per concludere, ecco il nocciolo della questione ad avviso del Supremo collegio, la depressione è, infatti, una patologia che, se particolarmente grave, può risultare incompatibile con la prosecuzione della detenzione in carcere, rendendo quest’ultima una fonte di sofferenze aggiuntive, incompatibili con il concetto di rispetto della dignità umana e con la finalità rieducativa della pena, o causare il peggioramento delle condizioni psichiche del detenuto. Nel caso sottoposto all’esame della Corte, male ha fatto il Tribunale di sorveglianza a non esprimere alcuna valutazione in merito alle condizioni di salute psichica del detenuto e alla loro compatibilità con il carcere, né risulta che la verifica sollecitata dal magistrato di sorveglianza sia stata mai effettuata. Tale valutazione è invece necessaria, sulla della giurisprudenza di legittimità, dovendo l’applicazione della più grave forma di esecuzione della pena rispettare sempre il diritto alla salute del detenuto e il senso di umanità.