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di Francesco Fimmanò

L’Espresso, 30 luglio 2023

La Corte dei Conti ha condannato un ex Pubblico Ministero a risarcire l’erario. Un caso che può aprire una nuova prospettiva sulla questione della responsabilità dei magistrati. Come ormai avviene ciclicamente da anni sono nuovamente esplose le polemiche sulla giustizia: dai cortocircuiti con la politica alle relazioni pericolose con la stampa, dalle disfunzioni del Csm alla invocata separazione delle carriere dei Pm.

In realtà il problema vero resta quello del rapporto tra potere dei magistrati e responsabilità, per cui in un Paese democratico ciascuno deve rispondere delle proprie azioni e delle conseguenze che ne derivano. Quel che è certo è che l’appartenenza del Pm all’ordine giudiziario e l’obbligatorietà dell’azione penale sono capisaldi dello Stato liberale. Troppo comodo sarebbe per alcuni Pm non dover cercare la verità, liberandosi così degli obblighi di sacrale rispetto delle regole del processo e delle garanzie della difesa.

La strada è invece quella della responsabilità, che purtroppo raramente trova risposta nelle sedi disciplinari, ove vengono puniti i magistrati per reati comuni (e ci mancherebbe altro) e raramente per gli abusi. Si stanno allora facendo strada altre prospettive e innanzitutto quelle aperte dalla riforma Renzi del 2015 sulla responsabilità civile diretta (seppure a mezzo rivalsa dello Stato) che infatti secondo i malpensanti avrebbe prodotto all’autore un po’ di grane.

La recente sentenza della Corte dei Conti della Puglia di condanna dell’ex Pm di Taranto Matteo Di Giorgio a risarcire l’erario (a seguito della citazione a giudizio proposta nel gennaio del 2022 dal procuratore regionale Manfredi Selvaggi) fa emergere una ulteriore prospettiva, sottovalutata dalla stessa magistratura contabile. Il punto nodale è, in questo caso, quello della compatibilità della responsabilità con le peculiarità della funzione giurisdizionale, della tensione tra il confine dell’attività giudiziaria, il cui contenuto sia censurabile (per i Pm in particolare per aver ignorato fatti risultanti dagli atti del procedimento o affermato fatti esclusi dagli stessi atti) e di quella amministrativa.

Ne deriva che non sono valutabili le condotte espressive di un potere discrezionale, che hanno come parametro regole di opportunità, ma rilevano solo quelle violative di norme espresse. Il danno all’erario consiste nella grave lesione della dignità, del prestigio e dell’autorevolezza della Amministrazione della giustizia, determinata da una condotta che abbia inciso su valori primari che ricevono protezione dall’ordinamento costituzionale e da quello finanziario contabile. In realtà, nel leggere gli atti a monte della sentenza, ci si accorge che si tratta di una delle più clamorose vicende italiane di malagiustizia.

Rocco Loreto, per tre volte sindaco di Castellaneta e per tre volte senatore nelle file del Pci-Pds-Ds, venne arrestato i14 giugno del 2001, su richiesta dell’allora Pm di Potenza Woodcock, con l’accusa di calunnia ai danni del Pm querelante Di Giorgio (concittadino del sindaco). La grave colpa di Loreto, tale da determinarne l’arresto senza neanche interrogarlo, sarebbe stata quella di aver presentato un esposto al ministero della Giustizia, al Csm e alla procura generale della Cassazione in cui criticava l’operato del Di Giorgio per aver abusato della funzione.

L’arresto avvenne casualmente il primo giorno utile dopo l’insediamento delle nuove Camere, quando Loreto non godeva più delle prerogative di parlamentare. Sempre casualmente, l’arresto fu ripreso da un fotografo appostato nel palazzo di fronte, alle 7 del mattino, con il sindaco stretto fra sette carabinieri. Il processo è durato 16 anni e Loreto pur di avere giustizia ha rinunciato alla prescrizione dei reati contestati.

La vicenda gli è costata 15 giorni di custodia cautelare e la fine della carriera politica, nonostante la piena assoluzione intervenuta molti anni dopo. Ma non è finita. Il pm Di Giorgio, invece, dopo essere stato condannato a 15 anni in primo grado, poi ridotti a 12 anni e mezzo in appello, subiva dalla Cassazione la condanna definitiva a 8 anni di reclusione (per la prescrizione di alcuni capi d’accusa) e alla interdizione perpetua dai pubblici uffici, per aver abusato della toga per interferire nella vita politica di Castellaneta.

La sezione disciplinare del Csm stavolta non ha potuto chiudere gli occhi e ne ha disposto nel 2018 (a 17 anni dal fatto) la rimozione dall’ordine giudiziario, nel silenzio dell’Anm sul caso. E alla fine è giunta qualche settimana fa la citata sentenza della Corte dei Conti. Ma in tutto questo bailamme è caduto nel dimenticatoio ciò che era realmente accaduto nel 2001, quasi che a perseguire Loreto nonni fosse stato nessuno o che si fosse auto-arrestato. Intanto lo Stato è stato condannato due anni fa dalla Corte di Appello di Potenza a risarcirlo (magra consolazione per lui ed ennesimo costo per i contribuenti).

La Corte Costituzionale dal canto suo, nell’autunno del 2022, ha di fatto introdotto nell’ordinamento il risarcimento dei danni non patrimoniali da lesione dei diritti inviolabili dell’uomo anche diversi dalla libertà personale. L’allargamento dell’ambito della risarcibilità va ad aggiungersi quindi per il futuro alla già enorme quantità di indennizzi a favore delle vittime di ingiusta detenzione e di errori giudiziari, che negli ultimi trenta anni sono state oltre 30.000, per un valore complessivo che ha sfondato il muro del miliardo di euro!

La quasi totalità di questi importi grava sulle casse dello Stato e quindi sui contribuenti, visto che le azioni di rivalsa sono ancora ben poca cosa e che la giustizia contabile pochissimo ha fatto negli anni prima di questa sentenza.

I casi sono tanti e purtroppo solo quelli famosi divengono noti alle cronache, a cominciare da quelli di Vittorio Emanuele di Savoia e dell’ex Sindaco di Campione d’Italia, che qualche anno fa sono stati risarciti per l’ingiusta detenzione cui erano stati sottoposti nel 2006 nell’ambito di un’inchiesta sempre dell’allora Pm di Potenza Henry John Woodcock.