sito

storico

Archivio storico

                   5permille

   

di Donatella Stasio

La Stampa, 4 ottobre 2023

Definire i magistrati “scafisti in toga” è un modo inaccettabile di alzare la tensione nel Paese. Per lo Stato di diritto la separazione dei poteri e l’indipendenza sono principi cardine. Ruth Bader Ginsburg, per ventisette anni icona liberal della Corte suprema americana, fino alla sua scomparsa, il 18 settembre 2020, la metteva così: “È facile difendere i diritti umani quando non sono minacciati. È come andare in barca in un giorno come questo, stare fuori al sole e poi correre sotto coperta appena viene la pioggia. Ma i diritti umani vanno protetti sempre, soprattutto quando sono minacciati, e anche se in gioco c’è la sicurezza nazionale”.

Era il 2008 quando Ginsburg mi affidava le sue riflessioni sul bilanciamento tra i diritti di libertà e la sicurezza collettiva. Impossibile, oggi, non ripensare a quelle parole, di fronte all’aria che tira sui diritti fondamentali, non solo dei migranti. Aria di tempesta. La politica securitaria della destra di governo minaccia di farli affondare in nome della sicurezza nazionale e scomunica chi, “per mestiere”, ha invece il dovere di “garantirne” la tutela, di impedirne la strage, tanto più quando la minaccia arriva da leggi borderline rispetto ai principi dello stato di diritto, patrimonio della civiltà giuridica europea o, peggio, da un clima di tensione.

La premier Giorgia Meloni non si è limitata - come sostiene il giorno dopo - a criticare la giudice di Catania per non aver convalidato il trattenimento dei quattro migranti tunisini sulla base del decreto Cutro, ma l’ha attaccata frontalmente. Così facendo ha perso un’occasione d’oro per dimostrare che la sua destra di governo vuole stare nel perimetro delle democrazie costituzionali e non in quello delle autocrazie, come Polonia e Ungheria, che hanno eroso piano piano le regole dello stato di diritto, mettendo sotto attacco l’indipendenza di giudici e Corti, e la loro funzione contromaggioritaria. È questo che dobbiamo aspettarci anche in Italia?

I fatti raccontano di un grave deragliamento delle dinamiche istituzionali dai binari della democrazia costituzionale. E sbaglia chi - anche tra gli opinionisti - obietta che “la destra fa la destra” e che i giudici dovrebbero adottare una sorta di self restraint di fronte alle leggi della maggioranza. Chi - come purtroppo è già avvenuto nel ventennio berlusconiano - si limita a parlare di diritti fondamentali quando fuori c’è il sole ma corre sotto coperta quando quei diritti sono minacciati, finisce per confondere l’opinione pubblica e per far regredire la democrazia. La storia ci ricorda che, proprio a partire dal ventennio berlusconiano, l’assenza di parole chiare ha determinato il progressivo e dilagante analfabetismo costituzionale che oggi consente di sovvertire le regole del gioco nella generale indifferenza, quasi si trattasse di peccati veniali.

In uno stato di diritto, la separazione dei poteri, l’autonomia e l’indipendenza dei giudici, sono principi cardine, così come quello secondo cui la giurisdizione dev’essere esercitata in funzione di “garanzia” dei diritti fondamentali delle persone (e colpisce che l’anima centrista del governo, che si autoproclama garantista, non difenda questo aspetto anche quando riguarda i diritti dei migranti). I giudici, quindi, non sono mai “bocca della legge” ma “interpreti” della legge da applicare, e non si può certo accusarli di “creatività” se si fanno carico di interpretare la legge in modo “costituzionalmente orientato” (senza bisogno, ogni volta, di ricorrere alla Consulta) o di disapplicarla se risulta in contrasto con talune regole sovranazionali di rango costituzionale, come la normativa europea. È lo stato di diritto, bellezza! È comprensibile che non faccia piacere alle maggioranze politiche di turno, ma è una funzione di controllo vitale per le democrazie costituzionali, che non può essere rappresentata come “scontro” politico.

Ciò non significa che le decisioni dei giudici non siano criticabili. I giudici, autonomi e indipendenti, hanno il dovere di rendere conto ai cittadini del ragionamento alla base delle loro pronunce e i cittadini possono criticarle, ma senza delegittimazioni. Non solo. Le sentenze possono essere impugnate e quindi anche modificate senza che ciò implichi la “responsabilità” del giudice (salvo nei casi di colpa grave, di dolo, di interpretazioni abnormi). Tutto questo appartiene alla fisiologia, alla normale dialettica istituzionale, eppure viene deformato dalla narrazione faziosa delle destre. Che arrivano a definire i giudici “scafisti in toga”, “un pezzo d’Italia che fa tutto il possibile per favorire l’immigrazione illegale” e che “si scaglia contro i provvedimenti di un governo democraticamente eletto”. Parole gravissime, che alzano la tensione nel paese e anche per questo sono inaccettabili, soprattutto se provengono da chi ricopre incarichi istituzionali.

Ma non basta. Nella migliore tradizione delle destre (e ancora una volta la memoria torna al ventennio berlusconiano), ecco che il giudice “non allineato” al governo viene messo alla gogna, spiato, delegittimato. Il bersaglio preferito - neanche a dirlo - sono le “toghe rosse”, cioè tutte quelle che non appartengono alle correnti di centrodestra, come Unicost e Magistratura indipendente, alla quale aderiva, tra gli altri, Alfredo Mantovano, parlamentare di Alleanza nazionale dal 1996 al 2012, poi tornato in magistratura come giudice di Cassazione fino a ottobre 2022, quando è stato nominato da Meloni sottosegretario alla presidenza del Consiglio. Ebbene, è buffo ma delle toghe come Mantovano non si dice mai che sono “politicizzate”.

Chi, come me, conosce Mantovano da decenni non dubita che, nonostante un’identità politica così marcata, abbia saputo esercitare la giurisdizione con terzietà. Ma altrettanto deve dirsi, fino a prova contraria (che non è certo quella strumentale delle destre), anche dei magistrati aderenti alle correnti progressiste, che storicamente si riconoscono nella Costituzione. Ma forse è proprio questo il punto: la destra non si riconosce nella Costituzione, nei suoi valori, nella sua cultura. Perciò continua a stressare le leggi, attaccando poi chi inevitabilmente le fermerà, ovvero quegli organi di garanzia che esistono proprio per controllare il potere delle maggioranze politiche e tutelare i diritti fondamentali: Presidenza della Repubblica, giudici, Corte costituzionale, ciascuno nei limiti delle proprie competenze.

Lo schema è sempre lo stesso: di fronte al cartellino giallo degli organi di garanzia, si grida al golpe rosso, una sorta di nuovo “maccartismo”. “Durante gli anni del maccartismo, gli anni della grande paura rossa, tanta gente è stata accusata ingiustamente” ricordava Ginsburg in quella giornata di sole, aggiungendo che l’America si è accorta “troppo tardi” di essere andata oltre e augurandosi che il suo paese non ripetesse gli errori del passato sul rispetto dei diritti fondamentali.

Purtroppo, oggi la Corte suprema americana parla soprattutto con la voce dell’ex presidente Donald Trump che nel frattempo ne ha conquistato la maggioranza (i giudici sono nominati a vita dai presidenti di turno), e con quella voce sono stati cancellati il diritto all’aborto a livello federale e le quote in favore delle minoranze etniche svantaggiate nell’ammissione alle università. Ma l’America è solo uno dei tanti casi, nel mondo, in cui “governi democraticamente eletti” - come li chiama Meloni - hanno smantellato diritti fondamentali, non direttamente ma attraverso la “normalizzazione” delle Corti e dei giudici, non più indipendenti ma pronti ad assecondare i provvedimenti della maggioranza politica.

In questo contesto di “regressioni democratiche”, non si può restare indifferenti alle reazioni scomposte del governo Meloni contro la giudice di Catania e, prima, contro i giudici che hanno ordinato l’imputazione coatta del sottosegretario Andrea Delmastro e concesso i domiciliari al russo Artem Uss. E si coglie meglio anche la vera ragione della cosiddetta riforma della giustizia, con la separazione delle carriere in primo piano, immediatamente brandita dalla maggioranza - senza alcun pudore - in chiave punitiva e di ritorsione.