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di Francesca Mannocchi

La Stampa, 12 gennaio 2023

Volto della CNN ha raccontato Iraq, Libano, Yemen, Siria: “Il messaggio è che, allo stesso tempo, puoi essere una donna, una madre e una corrispondente di una guerra. Puoi vivere la maternità e i sentimenti che ne conseguono ma anche raccontare conflitti”.

Clarissa Ward, volto della CNN, corrispondente di guerra di lungo corso, è diventata familiare al pubblico internazionale per le sue cronache dalla Kabul appena conquistata dai talebani, ma sulle spalle ha oltre dieci anni spesi a raccontare i conflitti in ogni angolo del mondo, prima per Fox, Abc e Cbs, poi l’arrivo alla CNN dove attualmente è la principale corrispondente internazionale.

Ha raccontato Iraq, Libano, Yemen, Siria, ha vissuto a Mosca e Pechino. Era a Kabul durante la presa dei talebani nel 2021 e in Ucraina a lungo a seguire la guerra, esperienze descritte nel suo recente libro ‘On all fronts’. A casa, a Londra, ad aspettarla al rientro da ogni fronte, un marito e due figli piccoli. Clarissa Ward è tornata in Ucraina da pochi giorni. Una delle prime immagini la ritrae sul campo, di profilo. Il volto è quello della giornalista concentrata nel suo lavoro, il corpo è quello di una donna incinta, al quinto mese di gravidanza. Tante le manifestazioni di stima, tante, ingenerose, le critiche.

Clarissa, sei una testimone di eventi storici, una giornalista con credibilità internazionale. Se c’è un messaggio nella foto che ti ritrae incinta di cinque mesi sul campo di guerra, qual è?

“Il messaggio è che, allo stesso tempo, puoi essere una donna, una madre e una corrispondente di una guerra. Puoi vivere la maternità e i sentimenti che ne conseguono ma anche raccontare conflitti. È come nel racconto di guerra, qualcuno pensa che se il focus è sui civili, sulle loro emozioni, si trascurano le tattiche militari, la previsione della mossa successiva degli eserciti in campo, è come se tutti gli ambiti dovessero essere sempre distinti, impariamo ad accettare che le cose diverse possano convivere, invece. Con fatica, ma convivere”.

In una delle due gravidanze precedenti, incinta di sei mesi ero in Yemen, a raccontare la guerra civile. Si può fare, cercando un accordo con le persone che ci amano...

“Quando ero incinta di cinque mesi ero a Sirte, in Libia, l’automobile su cui viaggiavamo fu colpita da un mortaio vicino al fronte che pareva fermo da giorni, e invece non lo era. In questi anni, ho trovato un mio punto di equilibrio tra l’amore per il mio lavoro e la protezione che ho bisogno di dare a mio figlio e alla mia famiglia”.

Qual è il tuo punto di equilibrio?

“Trovare un punto di convivenza tra l’amore per il mio lavoro e le mie responsabilità. Qualche volta ci sono dei rischi; l’anno scorso eravamo a Kharkiv e siamo usciti con dei paramedici e siamo finiti sotto un attacco vicino a dove eravamo. Quello era un rischio, calcolato, ma pur sempre un rischio e qualche volta è necessario prenderli per far capire alle persone cosa sta succedendo in ucraina ogni giorno. Ora, ovviamente, è diverso.

Questa volta in Ucraina c’è stato l’accordo con la mia famiglia di evitare il fronte e raccontare solo le grandi città, in un posto da cui posso uscire se qualcosa va storto. Prendo dei rischi qualche volta ma sono molto calcolati e cerco di prenderne pochi...

Cerco di spiegare alle persone perché vista da fuori sembra sempre molto più pericolosa di quello che è, che non significa che non sia rischioso, ma tu ed io sappiamo che ci sono modi di muoversi in cui devi essere veramente sfortunato perché qualcosa di veramente brutto accada. Questo è il modo in cui tendo a comportarmi e proteggermi quando mi trovo vicino alla linea del fronte”.

Clarissa, nel tuo libro scrivi che “essere una corrispondente di guerra è per te il privilegio di essere testimone della storia”, ma che il nostro lavoro ha un prezzo. Qual è il prezzo?

“C’è il prezzo che paghi per testimoniare il trauma degli altri, vedere la parte più oscura dell’umanità, e questo ha un impatto e questo non ti abbandona, sta con te ovunque, e poi c’è il prezzo da pagare perché quando sei al fronte vivi una quotidianità fatta di tanta adrenalina, le cose si mostrano così come sono, crude e la vita sembra più chiara e qualche volta addirittura più illuminata, e il prezzo è che può essere difficile, a volte, tornare ad una vita normale, e cercare di rallentare e abituarsi al fatto che vai a comprare il dentifricio al supermercato, vedere diverse marche di shampoo e chiedersi “perché ne ho bisogno?”. E questo può essere impegnativo, e penso tu possa dire lo stesso, di navigare, di orientarsi, avanti e indietro su strade diverse, con ritmi diversi.

Le tue relazioni sociali, umane hanno subito conseguenze?

“Sì, l’altro prezzo che paghi è che puoi sentirti molto sola, per quanto ami le persone, la tua famiglia, i tuoi amici c’è un dato. Loro non sono mai andati in zone di guerra e non ci andranno mai e c’è una grande parte di te che non potranno mai comprendere completamente”.

Puoi provare a spiegarla, a raccontarla, ma poi, spesso, mi chiedo: parlare di guerra può diventare argomento di conversazione, intendo dire che non possiamo parlarne in modo casuale, mai. Soprattutto noi che le abbiamo viste da vicino...

“Ecco perché le persone che fanno il nostro lavoro diventano amiche, sono parte della stessa prova, vivono gli stessi ostacoli”.

Come affronti la solitudine che le guerre ti consegnano?

“Una volta sono tornata dalla Siria e un paio di giorni dopo sono andata ad una cena e ho quasi lanciato un piatto contro un ospite, e non è per niente nella mia natura, ma ero talmente triste e indignata da quello che quest’uomo stava dicendo, qualcosa che non era basato sull’ esperienza ma su informazioni tossiche. Per questo penso il tempo da sola sia fondamentale al rientro, e può essere difficile spiegare alle persone perché sono preoccupate per te, sei tornata da qualcosa di così intenso, e l’unica cosa che vuoi è stare da sola”.

Essere madre ha cambiato il tuo modo di lavorare, cosa ti ha dato, cosa ti ha tolto?

“Da quando sono madre, sono emotivamente più esposta e più sensibile alle sofferenze degli altri, tendo ad essere più fisica, ad abbracciare di più le persone, ad essere più coinvolta dalle storie di sofferenza delle persone normali, e sento la responsabilità di raccontare queste storie in maniera più accurata di prima. Per molto tempo la prospettiva dominante sulla guerra era maschile e questo è dannoso, lo sguardo delle donne e delle madri hanno portato una prospettiva differente, penso che questo abbia cambiato molto il modo di raccontare i grandi eventi del nostro tempo. Raccontare i conflitti con due, ora quasi tre bambini, mi ha fatto chiedere spesso cosa significhi essere una buona madre. È una domanda comune alle donne che lavorano ma per noi è un interrogativo doppio.

Perché siamo madri che lavorano, esposte al pericolo e al dolore di altre madri che lottano ogni giorno per mettere in salvo i propri figli. Mi chiedo spesso se essere lontana mi faccia essere meno madre, se stia fallendo con i miei figli? Cerco di essere attivamente coinvolta nella vita dei miei figli anche quando sono sul campo, di organizzare tutte le loro attività extra-curricolari, ma capita che capisca male le cose, che mi dimentichi un appuntamento, e questo mi pesa. Perché anche se so che non è niente di grave, è un peso che dentro di me diventa l’eco di un giudizio che recita così: che razza di madre va in giro per il mondo e non aiuta i suoi figli? Soprattutto quando capita di trovarti in situazioni non prevedibili, come l’inizio della guerra in Ucraina. Pensavo di star via qualche giorno, sono rimasta un mese e mezzo”.

Come convivi con il senso di colpa indotto dal giudizio degli altri?

“Alla fine ho fatto pace con tutto questo, ho capito che per essere la migliore madre possibile, la madre più presente possibile, devo essere chi sono. E essere chi sono significa sapere che ci sono dei momenti di sconforti. Fa schifo stare lontano dai propri figli per un periodo lungo di tempo, è doloroso. È dura e sai cosa? Penso anche per i nostri colleghi che sono padri vivano lo stesso dolore, non abbiamo il monopolio sul fatto di sentire la mancanza dei nostri figli. Penso che noi donne affrontiamo molti più giudizi rispetto al fatto di stare lontano dai nostri figli, ma che almeno ne parliamo. E questo ci salva”.