di Damiano Aliprandi
Il Dubbio, 26 ottobre 2024
La denuncia del Comitato esecutivo del Coordinamento nazionale dei magistrati di sorveglianza sull’affettività dietro le sbarre: in nessun istituto italiano è stata ancora attuata la pronuncia della Corte. Il Comitato esecutivo del Coordinamento nazionale dei magistrati di sorveglianza lancia l’allarme sulla mancata attuazione della sentenza della Corte Costituzionale n. 10/2024 sui colloqui intimi nelle carceri italiane. La decisione, depositata il 26 gennaio e pubblicata in Gazzetta Ufficiale il 31 gennaio 2024, aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo che impediva i colloqui privati tra detenuti e partner.
“Il sistema penitenziario presenta molteplici criticità che ostacolano le finalità rieducative e risocializzanti della pena detentiva”, evidenziano i magistrati. Tra queste, emerge in primo piano il “permanente e gravissimo sovraffollamento carcerario”, accompagnato da carenze strutturali di personale che interessano tutti i livelli: dalla Polizia penitenziaria agli operatori dell’Amministrazione, dalle aree sanitarie fino ai Tribunali e agli Uffici di sorveglianza.
La sentenza della Consulta aveva stabilito che i detenuti dovessero poter effettuare colloqui con il coniuge, il partner dell’unione civile o il convivente stabile senza il controllo a vista del personale di custodia. Tale diritto sarebbe stato subordinato alla valutazione del comportamento del detenuto e all’assenza di ragioni di sicurezza o esigenze di mantenimento dell’ordine.
I magistrati sottolineano come l’impossibilità di esprimere una normale affettività con il partner rappresenti, nelle parole della Corte, “un vulnus alla persona nell’ambito familiare” che può portare a un “progressivo impoverimento” delle relazioni affettive, fino al rischio di una completa disgregazione dei legami familiari. “Una pena che impedisce al condannato di esercitare l’affettività nei colloqui con i familiari”, citano i magistrati dalla sentenza, “rischia di rivelarsi inidonea alla finalità rieducativa”.
Nonostante il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria abbia attivato un tavolo di lavoro per raccogliere informazioni necessarie all’attuazione della sentenza, i magistrati denunciano che “il tempo, non breve, ormai decorso dal 31 gennaio 2024” non ha portato a risultati concreti. In nessun istituto penitenziario italiano è stata data esecuzione alla decisione della Consulta, che pure dovrebbe avere efficacia immediata dalla sua pubblicazione.
La Corte Costituzionale, pur consapevole dello “sforzo organizzativo necessario per adeguare strutture già gravate da persistenti problemi di sovraffollamento”, aveva suggerito un’implementazione graduale, fornendo criteri guida per l’attuazione progressiva della nuova modalità di colloqui. Significativamente, la Consulta ha anche chiarito che non è necessaria l’adozione di una nuova legge per procedere con l’attuazione. Il Coordinamento conclude il proprio comunicato auspicando un “pronto adeguamento” dell’Amministrazione penitenziaria ai dettami costituzionali, sottolineando l’urgenza di dare concreta attuazione a una sentenza che mira a preservare i diritti fondamentali dei detenuti e il loro percorso di risocializzazione.
A denunciare l’immobilismo delle istituzioni, ricordiamo, è intervenuto anche il Garante per il Lazio, Stefano Anastasìa, che non ha usato mezzi termini nel definire la situazione “inconcepibile” per uno Stato di diritto. “A dieci mesi dalla sentenza della Consulta”, ha sottolineato con fermezza il Garante, “nessun detenuto ha ancora potuto esercitare questo diritto fondamentale”. La drammaticità della situazione è emersa con particolare evidenza nel carcere di Viterbo, dove ben 102 detenuti languono nell’attesa di una risposta alle loro legittime richieste di colloqui riservati. Le domande, presentate il 2 giugno 2024, giacciono inevase da oltre 90 giorni, in un silenzio amministrativo che ha spinto il Garante a un intervento d’urgenza presso la direzione dell’istituto.
Nel mirino delle critiche di Anastasìa è finito soprattutto il Dap, accusato di aver deliberatamente frenato le iniziative di quelle direzioni carcerarie che si erano mostrate pronte a dare seguito alla sentenza. La giustificazione addotta - l’attesa delle conclusioni di un non meglio precisato “gruppo di studio ministeriale” - viene bollata come pretestuosa dal Garante, che ha evidenziato come in molti casi basterebbero soluzioni semplici e immediate, come l’oscuramento delle finestrelle sulle porte delle sale colloqui, per garantire la necessaria privacy.
La vicenda ha assunto contorni ancora più inquietanti quando Anastasìa ha suggerito un possibile collegamento con le pressioni dei “più retrivi sindacati di polizia penitenziaria”, gli stessi che nel 2018 avevano ostacolato un tentativo di riforma del ministro Orlando in questa direzione. La questione si avvia verso una possibile escalation legale. I detenuti, dopo aver presentato reclamo ai garanti, potrebbero rivolgersi ai magistrati e ai tribunali di sorveglianza, con la prospettiva di arrivare fino alla Corte europea dei diritti umani.