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di Roberto Cornelli*

Il Fatto Quotidiano, 30 aprile 2022

La vicenda giudiziaria sul caso Cucchi indica una cosa molto semplice: quando capita qualcosa che non dovrebbe accadere, in strada come in una caserma, in una stazione di polizia, in un carcere o in un centro per stranieri, le forze dell’ordine italiane non hanno procedure interne efficaci che assicurino trasparenza e consentano di dare conto di ciò che è accaduto. Tutto è rimesso alla magistratura e, quando ci sono, ai familiari della vittima, che devono fare i salti mortali per ricostruire la verità.

C’è stato un pestaggio, che è all’origine della morte di Stefano Cucchi, un giovane uomo di 31 anni: è Cassazione. Ci sono condanne, di primo grado, relative a depistaggi che coinvolgono anche un generale dell’Arma dei carabinieri. Ma ora che la vicenda giudiziaria è parzialmente conclusa, bisogna provare ad andare oltre. Se di fronte a un corpo malmenato, si fosse attivato un intervento immediato di accertamento amministrativo - una indagine interna obbligatoria con la presenza di rappresentanti indipendenti - forse non solo la verità si sarebbe conosciuta prima, ma quel giovane avrebbe potuto ricevere le cure adeguate per salvarsi, al di fuori del circuito istituzionale che lo ha continuato a vedere, per 6 giorni, come un criminale. Di sicuro la spinta auto-conservativa che ha portato a depistaggi e falsità, e che ancora resiste in chi ha una visione autoritaria e autoreferenziale delle polizie, avrebbe faticato a emergere.

L’uso della forza da parte delle polizie (carabinieri compresi) a volte è necessario, ma in ogni democrazia rimane problematico per il rischio che si ecceda: non dimentichiamoci che la libertà ha origine dalla limitazione del potere delle istituzioni di polizia di disporre del corpo delle persone arrestate senza doverne rendere conto. Il riferimento è certamente all’Habeas corpus, ma anche all’articolo 13 della Costituzione sull’inviolabilità della libertà personale. Non a caso il primo elemento che osserviamo per definire un regime come autoritario o democratico è il modo di agire (e in particolare i limiti d’azione) delle polizie: in Russia come in Cina, in Birmania e in molti altri luoghi del mondo, sono le polizie a segnare in concreto cosa significhi vivere in un Paese non democratico.

Considerare in modo appropriato il rischio che si eccedano i limiti di legittimità nell’azione di polizia richiede dunque uno sforzo che non può essere lasciato nelle mani dei soli agenti che gestiscono situazioni più o meno critiche, contando esclusivamente sul loro equilibrio, sul loro senso etico, sul loro autocontrollo. La questione è culturale, organizzativa e politica e richiede che si attuino delle riforme perché quel rischio sia contenuto al massimo. Ne 1981, in pieno terrorismo, il Parlamento approvò una legge importante di riordino del comparto della Pubblica sicurezza, che prevedeva tra l’altro la smilitarizzazione della Polizia di Stato.

Vent’anni dopo, nel 2001, Il comitato dei ministri del Consiglio d’Europa ha approvato il “Codice europeo di etica per la polizia”: una raccomandazione che costituisce il primo strumento sovranazionale in materia di sicurezza. In questi ultimi decenni non sembra esserci stato un grande impegno nel prendere la strada delle riforme in un ambito così importante e cruciale per la democrazia.

Spesso ci si concentra sull’adozione di nuovi equipaggiamenti come se si fosse di fronte a interventi epocali. La posta in gioco è invece molto più alta. Spesso sono le conquiste sociali e civili a segnare i progressi di un Paese; ma i progressi sono segnati anche da come le istituzioni accompagnano i cambiamenti sociali e civili, dalla loro capacità di organizzarsi in modo coerente e, qualche volta, di renderli possibili. Le polizie non fanno eccezione.

*Professore di Criminologia e Politica Criminale all’Università di Milano-Bicocca