sito

storico

Archivio storico

                   5permille

   

di Lorenzo Montanaro

Famiglia Cristiana, 28 marzo 2024

Le riflessioni di Alessio Scandurra dell’associazione Antigone dopo il suicidio a Torino del 31enne Alvaro Nuñez Sanchez: “Se il carcere diventa una specie di “deposito di esseri umani”, in cui tutti stanno rinchiusi in pochi metri, anche i comportamenti che dovrebbero allarmare passano inosservati”. Si chiamava Alvaro Nuñez Sanchez. Aveva 31 anni ed era originario dell’Ecuador. Si è tolto la vita nel carcere “Lorusso e Cutugno” di Torino, impiccandosi con un lenzuolo. Aveva gravi patologie psichiatriche. E non avrebbe dovuto trovarsi lì. Dichiarato non in grado di intendere e di volere, era in attesa di essere trasferito in una Rems (Residenza per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza). Ma le liste d’attesa interminabili rendevano difficile immaginare il futuro. E a un certo punto la disperazione ha prevalso. Quello del giovane ecuadoriano è il 27esimo caso di suicidio nelle carceri italiane dall’inizio dell’anno.

“Oltre alla tragicità dell’accaduto in sé, va purtroppo detto che questi fenomeni estremi sono la punta di un iceberg” sottolinea Alessio Scandurra, coordinatore dell’osservatorio sulle condizioni di detenzione istituito dall’associazione Antigone, da sempre impegnata per i diritti e le garanzie nel sistema penale. “È uno di quei casi che non si è riusciti a bloccare. Ma i tentati suicidi nelle carceri italiane sono frequenti. E gli atti di autolesionismo sono all’ordine del giorno. Tutto ciò è indice di elevati livelli di sofferenza, fisica e mentale. Il malessere è molto diffuso e molto forte. Ma le risposte sono del tutto inadeguate”.

Possibile che una persona evidentemente malata, affetta da una grave forma di schizofrenia, debba trascorrere settimane e mesi rinchiusa in una cella, con tutti i rischi che questo comporta? Tristemente, il binomio fragilità psichica e detenzione è una ferita aperta. “Molte persone arrivano in carcere senza un quadro chiaro e in alcuni casi ci si accorge della patologia solo durante il periodo di pena”. Chi viene riconosciuto non in grado di intendere e volere al momento del reato, dovrebbe poter accedere a trattamenti specifici, ma spesso, anche a causa delle poche risorse disponibili, il sistema si inceppa e, come nel caso di Alvaro Nuñez, i tempi si allungano. Di sicuro, fa notare Scandurra “un ambiente malsano come quello del carcere non fa che peggiorare la situazione. Le fragilità psichiche tendono ad acuirsi e diventa anche più difficile leggerne i sintomi. Pensiamo a una situazione detentiva in cui tutti fanno attività, vanno a lavorare o a scuola. Se uno, ad esempio, se ne sta tutto il giorno rintanato nel letto e non esce dalla cella, la cosa si nota immediatamente. Ma se il carcere diventa una specie di “deposito di esseri umani”, in cui tutti stanno rinchiusi in pochi metri, anche i comportamenti che dovrebbero allarmare passano inosservati”. Tanto più se la presenza di personale sanitario rivela gravi insufficienze.

“Nel quadro generale di carenza di medici, si fatica a trovare psichiatri disposti a lavorare in un ambiente difficile come quello carcerario. In pochi accettano e stabilire una continuità è quasi impossibile” spiega ancora il referente dell’associazione Antigone. “La sproporzione tra disagio e presa in carico è evidente. Dalle nostre 99 visite condotte nel 2023, è emerso che, in media, ogni 100 detenuti vengono erogate appena 10 ore di servizi psichiatrici. In sostanza, il più delle volte, il medico fa appena in tempo a prescrivere i farmaci e avanti il prossimo”.

A proposito “il consumo di psicofarmaci tra i detenuti è esorbitante”. Da uno studio condotto dalla rivista Altreconomia, al quale ha collaborato anche l’associazione Antigone, emerge che la somministrazione di antipsicotici, usati per gravi patologie come schizofrenia e disturbo bipolare, è, nelle carceri, cinque volte superiore rispetto all’esterno. La ricerca ha rilevato, tra l’altro, “un dato particolarmente inquietante” spiega ancora Scandurra. “Il consumo di psicofarmaci negli istituti minorili è paragonabile a quello che si osserva nelle strutture per adulti. Possiamo immaginare quali conseguenze abbiano questi medicinali, già di per sé da maneggiare con estrema attenzione, su organismi molto giovani, che ancora si stanno formando”.

In generale, dunque, la situazione è incredibilmente complessa. Basta poco perché sfugga di mano. “Ma il problema inizia fuori dal carcere. I detenuti con problemi psichiatrici sono persone che i servizi territoriali non sono riusciti a intercettare. Oppure a un certo punto si sono perse. E i servizi non hanno avuto le risorse per seguirle come sarebbe stato necessario. Il più delle volte, ci sono storie di carenze di cura che partono da fuori”. Un quadro difficile, dunque. “Ma non tutto è così fosco” conclude Scandurra. “Ci sono anche percorsi che funzionano, avviati magari grazie agli enti locali o alle Asl. Dove c’è una risposta organica e strutturata, i risultati arrivano. Non si tratta di inventare qualcosa da zero, ma solo di estendere quanto già esiste. E attrezzarsi prima che diventi, definitivamente, troppo tardi”.