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di Gianluca Monastra

La Repubblica, 13 ottobre 2023

Siamo stati nel primo “Centro per uomini maltrattanti”, quello di Firenze. Vi si arriva su richiesta di un giudice o su invito di avvocati e medici. Dai colloqui individuali alle terapie di gruppo, ecco come funziona. molte volte, ma non sempre. “È stato solo uno schiaffo”. “Se l’è cercata lei”. “Ci sono momenti in cui dentro di me si risveglia una bestia”. “Non la conoscete, chiunque al mio posto avrebbe reagito così…”.

Firenze, mattina di fine estate, periferia nord-ovest della città. Condomini anni Sessanta, poche botteghe di quartiere, i vetri oscurati di una banca a tratteggiare un paesaggio urbano da graffitari. Accostata a un caseggiato, una palazzina dell’Asl con scampoli di verde sul davanti. Era una scuola, è diventato un Centro di salute mentale. Non ci sono insegne alla porta, meglio l’anonimato in certi casi. Dal 2009 ospita il Cam, Centro ascolto uomini maltrattanti, il primo in Italia, apripista di tante esperienze gemelle fino a tessere una rete europea. Nel silenzio delle stanze vuote è come se rimbombassero le frasi di chi qui viene per scelta o costrizione. Uomini che non odiano le donne - dicono - ma le picchiano, le umiliano. Nel tinello, per strada. Nella solitudine della camera da letto o sotto gli occhi dei figli.

Ogni anno aumentano - Dove c’è chi soffre, c’è chi la sofferenza l’ha provocata. Alessandra Pauncz, psicologa con una laurea in filosofia, da sempre è interessata alle questioni di genere. Nei primi anni Novanta si è avvicinata ad Artemisia, storica associazione fiorentina che aiuta le donne vittime di violenza. A un certo punto - insieme a un altro psicologo, uno psichiatra e un criminologo - ha sentito il bisogno di spostare lo sguardo: parlare con lui. Non si è più fermata. “Da allora” spiega “non è cambiato il fenomeno, semmai la sua percezione. La violenza contro le donne non si è arrestata. Per fortuna è aumentata la risposta sociale, anche se molte cose devono ancora cambiare. I dati Istat raccontano di un sommerso quantificabile nel 90 per cento del totale. Per capirci: i casi che finiscono in tribunale, sui giornali, sono la punta della punta dell’iceberg”. Se a al Cam di Firenze, nel 2018, gli ingressi di uomini accusati di aver maltrattato la donna con cui avevano un rapporto erano 56, nel 2022 sono stati 169. E quest’anno, sino a giugno, le chiamate al Cam (che ha aggiunto uno sportello in carcere) sono già 126. Italiani e stranieri, di ogni classe sociale, età media sui 44 anni, anche se aumentano i giovani tra i 18 e i 25 anni e compaiono i minorenni accusati di diffondere in rete foto e video di ex fidanzate, compagne di classe, amiche.

Al Cam si arriva dopo la sospensione della pena o un patteggiamento, a fine procedimento, su invito di avvocati e medici, per la sentenza di un tribunale o la richiesta di un magistrato di sorveglianza all’avvicinarsi del rilascio. Talvolta è lei a pretenderlo (“o ci provi o me ne vado di casa”), altre volte lui stesso lo chiede: “Sto male, sento il bisogno di lasciarmi aiutare”.

Funziona così: si parte con colloqui individuali (dai tre ai cinque) durante i quali gli operatori ascoltano la storia personale, leggono i documenti giudiziari e abbozzano un piano di lavoro. Se non vengono riscontrati seri problemi di salute mentale, alcol o droga, parte l’inserimento in gruppi di otto-dodici persone per incontri settimanali di un’ora e mezza ciascuno che possono andare avanti sei, otto mesi. Racconta Alessandra Pauncz: “Spesso la vergogna impedisce di comprendere la portata della violenza. In alcuni maschi esiste un corto circuito tra codice della tradizione - la donna non si picchia neanche con un fiore, sentono dire sin da bambini - e il proprio comportamento che soltanto visto addosso a un altro riconoscono come atto da vigliacchi. Così l’esperienza di gruppo diventa fondamentale. Un contesto collettivo, sicuro ma “scomodo”, nel senso che durante gli incontri non vanno lasciati liberi, ma riportati sempre sul tema”. Empatia, consapevolezza delle barriere che talvolta impediscono di chiedere aiuto, ma sempre tenendo la guardia alta.

Queste le regole degli operatori seduti sui divani viola del Centro davanti a chi cerca di aprirsi, controllarsi oppure manipolare. Uomini che possono ammettere colpe, ma anche innescare meccanismi di minimizzazione, negazione e colpevolizzazione della vittima. Sono confronti lunghi, meticolosi e incalzanti allo stesso tempo, al chiuso di stanze ricoperte da scaffali pieni di videocassette di vecchi film, con al soffitto un paio di mappamondi appesi a fili sottili come a ricordare la precarietà di ogni esistenza. Succede da anni. Tentativi instancabili, senza sosta. Persino durante la pandemia, grazie a una rete da remoto che garantì il servizio. Se il percorso funziona, gli operatori lo accompagnano fino alla fine. Se appare incompleto insistono, e solo quando diventa inevitabile si arrendono.

Qualche anno fa, al Cam avevano deciso di aprire le sedute ai giornalisti per documentare le attività all’esterno e magari incentivarne la partecipazione. “Ma leggendo le proprie testimonianze riportate anche correttamente sul giornale, qualcuno si è vergognato al punto da protestare. Anche alcune delle loro compagne non hanno gradito il sentirsi chiamate in causa senza il diritto alla propria versione. Così abbiamo lasciato perdere”.

Come testimonianza restano le tracce tangibili registrate negli appunti degli psicologi o nelle pubblicazioni ufficiali, a cominciare dai libri della stessa Alessandra Pauncz. Il sessantenne che confessa di replicare sulla moglie le violenze a cui ha assistito da bambino, quando il padre maltrattava sua madre: “Certe volte la sopporto, altre no, magari perché sono triste, stanco, ansioso. Succede allora che perdo il controllo e divento violento”. Chi invece ricorda “un’infanzia felice” e dopo “una escalation nella quale ancora oggi stento a riconoscermi” ammette: “Ho cominciato a reagire in modo violento”. Spiega Pauncz: “Dobbiamo essere in grado di spostare l’attenzione. Scavare oltre il dramma dei femminicidi, gli stupri. Perché è necessario intercettare in tempo i comportamenti a rischio per non precipitare nei delitti”. Un principio da rammentare: se le parole sono importanti, certe avvisaglie lo sono ancora di più. “Bisogna” dice “riconoscere i maltrattamenti sottili, la gelosia, denormalizzare alcuni sentimenti. Prendete le frasi: “Questo vestito non ti sta bene”. “Esci ancora con quell’amica? Quel giro mica mi piace”.

E poi il controllo sui movimenti, sui soldi, un fenomeno molto diffuso. E sottovalutato. In pochi sanno che sempre più uomini, tramite app o cellulari da loro stessi regalati, di nascosto hanno un accesso totale sui dati della compagna. Messaggi, chiamate, foto, post sui social. Ogni cosa”. Servono passi avanti, un lavoro sociale, culturale. “Devono essere gli uomini a cambiare” continua la psicologa “in tutti i sensi. È necessario mettere in discussione certi modelli. In Italia, ad esempio, siamo particolarmente indietro. Il peso degli impegni famigliari, la cura dei pasti, i figli, la gestione degli anziani, il bucato da stendere, ricade per la maggior parte sulle spalle delle donne. Una divisione ineguale che non produce niente di buono”. Sopra la scrivania della psicologa sono già pronti i questionari per le sedute dei nuovi arrivati. Su un armadietto è appeso un post it con un cuore rosso disegnato sotto la scritta “buon San Valentino”. “La sera di un 14 febbraio se lo regalarono delle operatrici del Cam, mentre erano qui da sole, a lavoro fino a tardi”. A modo suo, un segnale di speranza.