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di Federica Resta* e Armando Spataro

La Stampa, 5 agosto 2023

La vicenda dei presunti dossieraggi che potrebbero essere stati realizzati da personale di polizia giudiziaria già in servizio presso la Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo, solleva questioni particolarmente importanti, dal punto di vista delle garanzie democratiche.

I contorni della vicenda saranno chiariti dalla magistratura (nella specie la Procura di Perugia), cui spetta in prima istanza la ricostruzione dei fatti e l’accertamento delle responsabilità. Ma ciò su cui, sin d’ora, questa notizia induce a riflettere è l’importanza, nella società attuale, del potere informativo: del possesso e dell’uso, cioè, di informazioni su fatti e soprattutto su persone, agevolati dalla digitalizzazione ormai pressoché totale di ogni segmento della vita privata e pubblica.

L’informatizzazione documentale è, certamente, positiva soprattutto per le autorità inquirenti, che dispongono in tal modo di un patrimonio conoscitivo sensibilmente più esteso del passato e, per molti aspetti, più agevolmente accessibile e comunicabile. Ne deriva un generale miglioramento delle capacità di analisi e, anche, di cooperazione con altre autorità (persino straniere), resa possibile dalla facilità con cui i dati possono essere acquisiti e scambiati. Tuttavia, le straordinarie potenzialità dell’informatizzazione possono degenerare anche in mezzi potentissimi di controllo e, persino, di delegittimazione dell’altro, laddove si faccia un uso strumentale delle informazioni acquisite, persino a fini di interesse politico, personale, aziendale e meramente economico. Le conseguenze di un utilizzo improprio di informazioni personali, più o meno riservate, possono rivelarsi persino drammatiche, per i singoli e anche per le istituzioni laddove ne siano coinvolte.

La correttezza nell’uso delle risorse informative è certamente espressione di quella disciplina e di quell’onore con cui la Costituzione impone sia svolta la funzione pubblica, da parte di chiunque vi sia chiamato. Ma, naturalmente, non si tratta soltanto di etica pubblica o di sensibilità del civil servant. Il corretto utilizzo delle risorse informative costituisce un preciso dovere sul cui rispetto bisogna vigilare e la cui violazione va prevenuta.

La disciplina di protezione dei dati personali (che dal 2018 si applica con maggiore capillarità anche all’attività inquirente) si fonda proprio sulla consapevolezza dei rischi connessi a un uso scorretto dei dati e impone l’adozione di misure che li minimizzino. Tra queste, il tracciamento di ogni attività compiuta sulle banche dati (come ha disposto, con particolare rigore, per il settore investigativo di competenza, il Procuratore Nazionale Antimafia e Antiterrorismo Melillo), la previa autorizzazione delle operazioni dalle autorità a ciò preposte per legge, e a monte, la limitazione dei soggetti legittimati ad accedere alle risorse informative e dell’oggetto dell’accesso, secondo quel criterio del “need to know” particolarmente utile nella selezione, oggettiva e soggettiva, del perimetro delle consultazioni.

Il rischio di abusi nell’accesso ai dati cresce, poi, inevitabilmente, ogniqualvolta le autorità pubbliche (soprattutto se inquirenti) esternalizzano parte della gestione del patrimonio informativo a soggetti esterni. È una circostanza resa oggi sempre più frequente e quasi necessitata dall’alto tasso di tecnicalità di molte delle attività demandate alle pubbliche amministrazioni, che spesso non dispongono delle competenze adeguate. E tuttavia, proprio l’affidamento a terzi, estranei al comparto pubblico, di segmenti, più o meno importanti, dell’attività amministrativa o, addirittura, inquirente, comporta criticità non trascurabili.

L’alto numero e la diversa appartenenza dei soggetti legittimati, a vario titolo, ad accedere al patrimonio informativo ne accresce, inevitabilmente, il rischio di permeabilità. La frammentazione e parcellizzazione dei centri di responsabilità, derivanti dal coinvolgimento di molteplici soggetti nella “catena” delle attività investigative è, indubbiamente, un fattore di moltiplicazione esponenziale dei rischi. Non solo per i singoli interessati ma anche per la stessa efficacia e segretezza dell’azione investigativa.

Lo dimostrano i problemi connessi all’uso dei trojan (rispetto ai quali la scelta delle ditte cui affidare le attività captative è cruciale nella garanzia di correttezza delle operazioni), ma anche i procedimenti che hanno coinvolto talune società incaricate della manutenzione dei server di alcune Procure, settore in cui da tempo la magistratura chiede interventi mirati ad una maggiore efficienza. Il rapporto tra privacy e potere investigativo, già di per sé delicatissimo, lo diviene ancor più per effetto delle potenzialità della tecnologia: straordinarie ma anche rischiose, se non adeguatamente governate.

La sfida che abbiamo davanti, tanto più con l’avanzante intelligenza artificiale, è porre la tecnica al servizio della democrazia, non delle sue distorsioni. In fondo, la rigorosa disciplina interna introdotta dal procuratore nazionale Melillo e le indagini in corso a Perugia hanno il merito di ricordarcelo.

*Intervento a titolo personale che non impegna in alcun modo l’Autorità di appartenenza