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di Filoreto D’Agostino

Il Fatto Quotidiano, 16 marzo 2023

Il ministero della Giustizia ha chiesto al Comitato nazionale per la bioetica un parere sul problema generale dei trattamenti sanitari applicabili al detenuto che protesta con il digiuno o altre simili metodiche (come nel caso Cospito). Dal relativo testo si apprende che il Comitato si è espresso così: i medici non sono esonerati dal praticare al detenuto tutti i trattamenti utili per salvargli la vita nel caso di imminente pericolo e quando non sia possibile accertare la volontà attuale del paziente.

A questa conclusione il Comitato è pervenuto con una votazione a maggioranza, dopo che su alcune premesse aveva raggiunto l’unanimità: in particolare sul fatto che la persona detenuta ha, alla pari di ogni altra, il diritto di esprimere consenso o dissenso informato alle terapie praticabili ed è legittimata a redigere le Disposizioni anticipate di trattamento (Dat). Si è cioè affermata la piena applicabilità ai detenuti della legge 219/2017 recante norme su consenso informato e Dat.

La motivazione resa dal Comitato sul dovere positivo del medico di usare gli strumenti terapeutici utili si fonda sul principio proclamato nella sentenza Cedu 8.12.22, secondo il quale le autorità penitenziarie non possono contemplare passivamente il decesso del detenuto. Quel precetto giuridico, peraltro, si ricollega alla decisione Cedu 29.04.22 secondo cui “l’articolo 2 della Convenzione europea dei Diritti dell’uomo non può essere interpretato nel senso che esso tuteli anche il diritto di morire, ovvero come facoltà dell’individuo di autodeterminarsi alla morte”. Suffraga questa conclusione la legislazione italiana. La norma applicabile è l’articolo 4, c. 5, legge 219/2017 che autorizza il medico a disattendere in tutto o in parte le Dat “qualora esse appaiano palesemente incongrue o non corrispondenti alla condizione clinica attuale del paziente”.

Il profilo fondamentale è come valutare tali palesi incongruenze. L’interpretazione seguita dal Comitato implica che una Dat condizionata a un atto dell’amministrazione (del tipo: “Non voglio alcun trattamento se non mi concedono gli arresti domiciliari”) è del tutto incongrua perché tra la mancata terapia e la concessione di un beneficio carcerario non sussiste alcun legame di causalità e perché la volontà del detenuto non si è formata liberamente (tesi da me adombrata sul Fatto nell’articolo dello scorso 18 febbraio relativamente alla cessione di organi per ridurre la pena), ma in funzione di qualcosa che non è nella sua disponibilità. Affidare la propria vita alla volontà di un soggetto esterno può lambire l’illecito come avviene nei ricatti amorosi (“Se non stai con me mi uccido”) e si risolve in condizione meramente potestativa (nulla ex art. 1355 c.c.).

Va considerato poi l’articolo 580 c.p. che punisce l’istigazione o l’aiuto al suicidio. Le autorità carcerarie, ove si limitino a contemplare passivamente la morte del detenuto, potrebbero ben essere incriminate per averlo aiutato a morire. L’aiuto, specifica la norma incriminatrice, può essere dato “in qualsiasi modo”. Quindi anche con la mera omissione perché anche questa risponde al canone della causalità adeguata. Il diritto alla vita difeso dal Comitato per la bioetica, infine, è consustanziale alla persona e ne condivide il profilo della dignità quale valore posto alla base della nostra Carta fondamentale. La dignità della persona, benché non dichiarata come supervalore primario (diversamente dalla Grundgesetz germanica), emerge come sintesi dei principi recati negli articoli 2, 3 e 4 della Costituzione, anche in quanto espressione primaria della nozione di lavoro sul quale l’articolo 1 Cost. fonda la nostra Repubblica democratica. Tale disposizione acquista, tramite la dignità umana espressa nel lavoro, caratteri d’integralità che ne completano la valenza di norma principio.