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di Tiziana Maiolo

Il Dubbio, 26 agosto 2023

Solo il controllo del potere legislativo ci libera dall’ipocrita obbligatorietà dell’azione penale. Nel mese di aprile del 2020 il procuratore capo di Milano Francesco Greco, con una circolare rivolta ai suoi sessanta sostituti, impose una deroga all’applicazione del principio dell’obbligatorietà dell’azione penale. Evitate -era scritto nel documento- di chiedere al gip l’applicazione di misure cautelari in carcere se non per reati gravissimi commessi con modalità violente.

Il motivo era molto serio, l’epidemia da coronavirus e la pericolosa situazione di perenne sovraffollamento delle carceri. Ma il punto che interessa sottolineare oggi, alla vigilia della discussione parlamentare su vari progetti di modifica costituzionale per separare le carriere di giudici e pm, è che l’obbligatorietà non è un tabù inespugnabile.

E che l’articolo 112 della Costituzione può benissimo essere abrogato e sostituito da un principio, quello della discrezionalità dell’azione penale, che è il contrario di quel che succede oggi in Italia, cioè il totale e incontrollato arbitrio con cui si muove un soggetto processuale, il pm, nel selezionare, sotto anziché sopra il tavolo, le carte che vedranno la luce processuale, separandole da quelle destinate alle tenebre del cestino della carte straccia. Un’attività coperta dall’ipocrisia invece che dalle regole, senza che questo soggetto selezionatore debba mai risponderne a nessuno. Non agli elettori, visto che ogni magistrato, giudice o accusatore che sia, è un burocrate che ha vinto un concorso. Non al ministero di Giustizia o al Parlamento come è in tutti i Paesi dell’Occidente democratico, sia quelli anglosassoni del common law, sia quelli europei del civil law.

Ogni volta, e questa ultima potrebbe essere quella buona, in cui la politica cerca di riprendersi nelle mani il ruolo di legislatore che le assegna la Costituzione secondo il principio della divisione dei poteri, e tenta di toccare le carriere dei magistrati e proporre la separazione tra chi accusa e chi giudica, ecco che l’intera corporazione grida come un sol uomo contro l’”attentato”.

“Così il pubblico ministero finirà sotto il controllo politico!”. Perché no, viene da rispondere. Naturalmente depurando la parola “controllo” dell’aura di disvalore che le toghe le attribuiscono. Prima di tutto va detto che la separazione delle carriere tra requirente e giudicante, mezzo fondamentale per arrivare a una terzietà del giudice come soggetto separato e “non amico” delle parti processuali, è solo l’antipasto, la premessa indispensabile per portare l’Italia fuori da sistemi degni di Paesi totalitari e farla rientrare nel mondo moderno e occidentale. Magari ricordando anche le nostre origini, perché il diritto romano prevedeva un vero sistema accusatorio pieno, e non solo “tendenziale” come quello della riforma del 1989. Separazione come mezzo per la terzietà del giudice e non come fine a se stesso, come sottolineano le diverse proposte di legge oggi depositate in Parlamento e che traggono ispirazione da quella su cui l’Unione Camere penali raccolse oltre 70.000 firme nel 2017. Mezzo, ma anche presupposto. Perché non basta, anche se sarebbe già molto, per esempio, con la spaccatura in due del Csm, togliere ai pm quel potere elettorale di condizionamento sulle carriere dei giudici che deriva proprio dal loro ruolo di investigatori. Perché è proprio la funzione requirente che va ridefinita per essere adeguata al sistema accusatorio del processo.

Va ricordato che l’autonomia e l’irresponsabilità (cioè la non responsabilità, il non dover render conto delle proprie azioni a nessun soggetto) concesse dai padri costituenti al pubblico ministero furono frutto di un compromesso e bilanciate con il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale. Che il principio di voler perseguire ogni reato sia irrealizzabile è sotto gli occhi di tutti. Tanto che il criterio delle priorità nella politica anticrimine è stato posto fin dal 1993 dalla Commissione Conso, che pure era composta di soli magistrati, e dalle due Bicamerali, quella presieduta da Ciriaco De Mita e quella guidata da Massimo D’Alema. In entrambe fu chiaro che parlare di “priorità” vuol dire spezzare il nocciolo duro dell’obbligatorietà dell’azione penale.

Certo, ci sono stati anche magistrati, come il procuratore generale di Torino Maddalena nel 2007, che hanno preso personalmente l’iniziativa di avviare una politica delle corsie preferenziali. Ma dovendo rispondere sempre, nel nome dell’autonomia del pubblico ministero, solo a se stessi. Ecco, questo non è da Paese democratico, è da Paese totalitario. Separiamo le carriere dunque, ma rompiamo anche l’ipocrisia della finta obbligatorietà e rendiamo il giudice veramente terzo e più forte, rendendo la figura del pubblico ministero più democratica. Non è questione di “controllo” politico, ma di responsabilità.