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di Gian Carlo Caselli

La Stampa, 9 settembre 2023

Se i gravi problemi di bilancio che ci affliggono lasceranno tempo per altro (ma anche se per far dimenticare i problemi di bilancio si cercherà di dirottare l’attenzione su altro), stanno per irrompere sulla scena politica alcune importanti riforme - o pseudo riforme - di portata costituzionale. Tra queste la separazione delle carriere tra pm e giudici: il destriero in groppa al quale Carlo Nordio, ministro della Giustizia, è sceso in campo - con avvocati e “berluscones” di vecchia e recente appartenenza - per combattere una battaglia che ha come scopo ultimo ridurre l’indipendenza dei pm.

Sgombriamo il campo da un equivoco: la separazione delle carriere è cosa ben diversa dalla separazione delle funzioni, che nel nostro sistema esiste da tempo. Si devono evitare commistioni improprie, perché è intuitiva l’inopportunità che chi è stato pm compaia il giorno dopo come giudice nello stesso tribunale (o viceversa). E per transitare da una funzione all’altra è oggi previsto un articolato sistema di controlli di professionalità e di incompatibilità territoriali che hanno reso il fenomeno pressoché inesistente. Con la separazione delle carriere si vorrebbe invece rompere l’attuale colleganza (determinata dalla omogeneità di status) tra giudicanti e requirenti; perché si dice che un giudice non controllerebbe con sufficiente rigore l’operato di un pm che è suo collega. A parte che, ragionando cosi, a essere separate dovrebbero essere piuttosto - ciò che nessuno ragionevolmente propone - le carriere dei giudici di appello e quelle dei giudici di primo grado; - la separazione delle carriere produrrebbe due concorsi diversi per pm e giudici, due diversi Csm, due carriere diverse e appunto separate. E insieme a tanti altri magistrati (tra cui moltissimi come me ormai in pensione e quindi - come dire - fuori dalla mischia) sono convinto che disancorare il pm dalla cultura della giurisdizione (nel nostro sistema, un elemento di garanzia irrinunciabile) significherebbe inesorabilmente farne un funzionario del governo tenuto ad adempierne le direttive. Perché una cosa è certa: ovunque vi sia un qualche declinazione della separazione delle carriere le cose funzionano così. Eppure (si osserva) ci sono anche paesi di indiscutibile caratura democratica. E allora diciamolo: del problema separazione delle carriere potremo eventualmente parlare, senza farne un tabù ideologico per ridurre i pm scomodi in quanto indipendenti in un angolo, quando anche la nostra politica saprà bonificarsi da quelle componenti ancora oggi compromesse con fatti di corruzione o di malaffare. Altrimenti, mettere il pm, di fatto, alle dipendenze del potere politico del momento (non interessa di che colore), sarebbe come spalancare l’ovile al lupo. Conviene al nostro Paese?

Infine un ricordo personale. Invitato a Vienna per un convegno organizzato dai magistrati della Procura anticorruzione di quella città, li trovai in un momento di grande euforia per una novità giudicata “rivoluzionaria”. Dipendevano dal ministro della Giustizia e le direttive di questi sulle inchieste (se farle o non farle, fino a che punto arrivare, quali personaggi escludere...) erano tassative. Ma gli “ordini”, che prima erano soltanto “verbali”, adesso - ecco la grande novità - dovevano essere impartiti con atto scritto da inserire nel fascicolo processuale. Per questa grande conquista stavano allegramente brindando… Teniamoci stretto quel che abbiamo.