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di Michele Ainis

La Repubblica, 4 febbraio 2024

Una legge c’è, ma fa acqua da ogni lato. È un colabrodo. “Nemo iudex in causa sua”, dicevano nell’antica Roma. Nella Roma dei nuovi imperatori, viceversa, ciascun parlamentare giudica se stesso. E ovviamente si assolve, anzi s’appunta al petto una medaglia. Sicché alle nostre latitudini il diritto genera il rovescio - la giustizia ingiusta, la legge illegale. La (non) disciplina del conflitto d’interessi è la prima causa di questa sciagurata condizione. Perché una legge c’è - quella concepita da Franco Frattini nel 2004 - ma fa acqua da ogni lato, è un colabrodo.

Altrimenti non andrebbe in scena lo spettacolo denunciato su questo giornale da un’inchiesta di Colombo e Fraschilla: cento parlamentari con un ruolo in imprese private e para-pubbliche, che siedono nei consigli d’amministrazione delle aziende, che detengono quote in varie società. E che poi presentano disegni di legge, interrogazioni, memorie su carta intestata della Repubblica italiana per difendere i propri specifici interessi. Oppure che dimenticano di segnalare agli uffici delle Camere la loro attività imprenditoriale, tanto non c’è sanzione per gli smemorati, né per chi dichiari il falso.

Diciamolo: è uno scandalo, però a scandalizzarsi sono in pochi. L’Italia non è l’America, dove fu per primo George Washington a puntare l’indice contro i pubblici ufficiali che lucravano sulla propria posizione, e dove infatti c’è una disciplina rigorosa fin dal 1853. Noi agli Stati Uniti preferiamo l’Ungheria, l’unico altro Paese europeo senza interesse per i conflitti d’interessi. Da qui reprimende e moniti del Consiglio d’Europa, ma intanto la legge Frattini è sempre lì, immarcescibile come il Colosseo. Una legge che s’applica (si fa per dire) soltanto a chi abbia ruoli di governo, affidandone il rispetto all’Autorità Antitrust, ma senza dotarla di poteri coercitivi.

Quest’ultima può inviare unicamente una segnalazione ai presidenti delle Camere, dopo di che campa cavallo. Ma non può nulla verso i parlamentari, né quando si dedicano agli affari, né quando continuano a impegnarsi in una professione, come Giulia Bongiorno, la più celebre dei 114 avvocati che hanno uno scranno in Parlamento. D’altronde, nei rari casi in cui il nostro ordinamento parlamentare prefigura un giudice, quest’ultimo coincide con l’imputato. Succede a proposito della “verifica dei poteri”, ossia del controllo sulla regolarità delle operazioni elettorali, se intervengono contestazioni sul computo dei voti; così come circa le cause d’ineleggibilità o di incompatibilità dei parlamentari. Qui la decisione spetta alle Giunte delle elezioni di Camera e Senato, che non decidono, oppure decidono all’ultimo minuto della legislatura, quando i buoi sono già scappati dalla stalla.

Un caso per tutti: nella XV legislatura (2006-2008) otto seggi in Senato vennero assegnati sulla base di un’interpretazione erronea del ministero dell’Interno, lasciando a secco una formazione politica (la Rosa nel pugno); ma la Giunta fece orecchie da mercante, anche perché fra i suoi membri c’era il forzista Cosimo Izzo, uno degli otto senatori contestati. D’altronde l’ultima elezione annullata alla Camera risale al 1992. E quando il Parlamento dice niet non c’è rimedio: su 43 Stati del continente europeo, solo l’Italia (insieme al Belgio) non permette un controllo giurisdizionale sulla verifica dei poteri. Anche se l’Osce critica l’anomalia italiana dal 2006.

Autodichia, ecco la parola magica. Una giustizia domestica che regna in Parlamento così come all’interno delle categorie professionali, dove gli ordini che vivono a spese degli iscritti dovrebbero al contempo randellare i propri finanziatori. E a proposito di flussi finanziari: sarà un’altra coincidenza, ma guarda caso l’Italia è fra i pochi Paesi al mondo orfana d’una legge sulle lobby, quando negli Usa - per fare un solo esempio - il Lobbying Act risale al 1946, e viene aggiornato di continuo. Come diceva Longanesi, la democrazia italiana si fonda sull’abuso di potere, mitigato dal consenso popolare.