sito

storico

Archivio storico

                   5permille

   

di Gerolamo Fazzini

Famiglia Cristiana, 13 aprile 2023

“Sommare morte a morte non serve a nulla”, dicono i genitori dell’ambasciatore italiano ucciso in Congo. “Luca non avrebbe voluto, non è quello che gli abbiamo insegnato”. “Vogliamo giustizia, non vendetta. Sommare morte a morte non serve a niente. Non è quello che Luca avrebbe voluto, non è quello che gli abbiamo insegnato, in famiglia e qui in paese”.

Salvatore Attanasio, 71 anni, padre di Luca, lo ripete più di una volta, pacatamente, ma con decisione. Continua: “La moglie Zakia ha lanciato una petizione per chiedere alle autorità congolesi di non eseguire la pena capitale contro i presunti assassini di nostro figlio: sono state già raccolte circa 25 mila firme”. Siamo a Limbiate, alle porte di Milano, paese di origine di Luca Attanasio, l’ambasciatore italiano nella Repubblica Democratica del Congo ucciso (in circostanze ancora da chiarire) il 22 febbraio 2021. Nel salotto di casa Attanasio tutto parla di Luca: ci sono i suoi quadri dai colori accesi appesi alle pareti, una sua foto sul mobiletto.

“Ci manca tanto”, confidano Salvatore e la moglie Alida. Lui, ingegnere in pensione, è di origini pugliese, lei è limbiatese; si sono sposati nel 1975. “Eravamo legatissimi: ogni mattina Luca mandava un messaggio Whatsapp”. È parlando con Alida e Salvatore, in due ore fitte di conversazione, che capisci da dove sia venuto fuori Luca Attanasio: una persona speciale, tant’è che quando iniziò la carriera diplomatica qualcuno disse che alla Farnesina “era arrivato un Ufo”.

In famiglia Luca è stato formato a valori solidi: “Il senso del dovere, prima ancora della rivendicazione dei diritti, il rispetto degli altri, la capacità di ascoltare, la legalità”. Inoltre, aggiunge la mamma, “Luca aveva dentro di sé una fede che faceva sì che pensasse con la testa, ma agisse col cuore”.

Un contributo determinante alla sua formazione è venuto dalla parrocchia e dall’oratorio...

“Alcuni preti, in particolare, hanno segnato il suo cammino. Tra questi don Angelo Gornati, il parroco, che diventò un grande amico di Luca, tant’è che dopo la sua nomina in Marocco, andò a trovarlo a Casablanca, con alcuni limbiatesi. È lui che ha celebrato il matrimonio di Luca e Zakia”.

Per Luca è stata molto importante anche la Comunità di Taizé. Come mai?

“A Taizé Luca c’è andato diverse volte, prima da adolescente, poi da giovane, come guida. Per lui era un luogo speciale: lo affascinava il fatto di essere una comunità aperta a tutti, indistintamente. Conosceva personalmente frère Roger Schutz, il fondatore; quando nel 2005 è stato ucciso, Luca ha sofferto tanto. Un anno dopo la morte di Luca, nel maggio 2022, con una coppia di amici, ci siamo andati anche noi: l’accoglienza ci ha lasciato a bocca aperta. Abbiamo partecipato a un momento di ricordo di Luca, in varie lingue, portando la nostra testimonianza”.

Quando Luca vi ha annunciato che aveva conosciuto Zakia, una donna del Marocco, di religione musulmana, qual è stata la vostra reazione?

Non ci ha sorpreso. Luca era un tipo aperto, cittadino del mondo nel vero senso della parola. Anzi: lui è proprio un esempio di come possano convivere persone di religioni diverse. Quando si sono sposati, Luca e Zakia hanno celebrato, in totale, 4 matrimoni fra cerimonie civili e religiose, in Italia e Marocco”.

Una volta arrivato nella Repubblica democratica del Congo, Luca si è distinto, fra le altre cose, per il suo rapporto speciale con i missionari…

“Li conosceva tutti, aveva voluto andare a incontrarli sul posto, a costo di percorrere lunghissime distanze. E tutto questo nell’arco di soli tre anni. Padre Franco Bordignon, saveriano, in missione a Bukavu (Sud Kivu), ci ha raccontato che Luca andava una o due volte l’anno a visitare la missione, portandosi i timbri necessari per fare le pratiche consolari ed evitando così viaggi lunghissimi e faticosi nella capitale ai nostri connazionali. Un confratello, Pietro Rinaldi, anch’egli per lunghi anni di stanza a Bukavu (ora in Italia) ci ha detto: “Quando veniva da noi ascoltava con interesse; percepiva la sofferenza della gente”“.

Anche il rapporto particolare che aveva con la gente è stato un tratto distintivo di Luca…

“Sì. Per lui essere ambasciatore non era un mestiere, ma una missione. Era impeccabile nelle manifestazioni e negli incontri istituzionali, però nel tempo libero incontrava la gente e si presentava come Luca. La missionaria laica Chiara Castellani ci ha raccontato di essere rimasta stupita quando lui la salutò così: “Non chiamarmi Eccellenza, ma semplicemente Luca”. Noi stessi, durante un soggiorno a Kinshasa nel 2019, rimanemmo colpiti da quanto calorosamente un gruppo di bambini salutò Luca, che in quel momento era uscito per un giretto con le sue bambine, sotto gli occhi della scorta. I congolesi stanno ancora piangendo Luca. Lui amava profondamente quel popolo. A chi andava in Congo raccomandava di portare una valigia di medicinali per i più poveri”.

Tra le persone che hanno stimato Luca c’è il dottor Denis Mukwege, fondatore del Panzi Hospital per le donne stuprate e premio Nobel per la pace nel 2018...

“Mukwege è stato in Italia di recente, ha inaugurato l’anno accademico in Bocconi ed è venuto a trovarci a Limbiate per pregare sulla tomba del suo grande amico. Ci ha colpito sentirlo dichiarare: “Se non si troverà la verità per Luca non potrà mai esserci pace in Congo”. Una frase del genere mette in evidenza la complessità della situazione, determinata dalla ricchezza del sottosuolo (che suscita gli appetiti di molti), dalla presenza di vari gruppi armati e da tensioni che durano da anni e condizionano pesantemente lo sviluppo del paese, specie nel Nordest. Il Congo è un forziere, ma la popolazione purtroppo vive nell’ignoranza e nella miseria a causa dell’avidità di alcuni. La vicenda di Luca ha, se non altro, riacceso i riflettori su quel martoriato Paese”.

Il 25 maggio a Roma, è prevista l’udienza preliminare nei confronti di due dipendenti del Pam (Programma alimentare mondiale), organizzatori della spedizione: sono accusati di omicidio colposo. Che idea vi siete fatti di quanto accaduto?

“Dagli atti appare evidente la loro responsabilità nell’attentato costato la vita a tre persone. Per questo noi crediamo che non solo la famiglia Attanasio, ma l’Italia debba chiedere giustizia. Luca rappresentava lo Stato, ha reso un grande onore all’Italia. Per questo trovo scandaloso il silenzio dell’Europa. Dopo l’omicidio, avevamo parlato con il presidente David Sassoli che ci aveva assicurato il suo interessamento. Abbiamo incontrato anche Roberta Metsola, che ne ha preso il posto, ma stiamo ancora aspettando una presa di posizione chiara e gesti concreti dalla Ue”.

Signora Alida, è stata lei che, dando a Luca, anni fa, un dépliant dell’Ispi, ha contribuito a orientare suo figlio verso la carriera diplomatica. Oggi lo rifarebbe?

“Luca è sempre stato uno spirito libero, con un grande sogno: voleva servire il suo Paese. La carriera diplomatica era lo strumento per realizzarlo. Quindi… sì, lo rifarei. Non potevamo tarpare le ali a Luca. Se avessi nascosto quel dépliant, gli avrei fatto un grande torto. Nonostante la straziante tragedia, non mi pento di aver contribuito alla sua decisione. Luca ha dato tanto a noi, al Paese, al mondo”.

Se mai si riuscirà a stabilire chi sono gli assassini di Luca, riuscirete mai, grazie alla fede, a perdonarli?

“A noi familiari non interessa la vendetta, chiediamo giustizia. Questa è la nostra battaglia. Lo dobbiamo soprattutto alle sue figlie che cresceranno senza il papà e che hanno il diritto di conoscere la verità. Solo quando si conoscerà la verità sull’accaduto, si potrà parlare di perdono. La fede non è incompatibile con la ricerca della verità”.