sito

storico

Archivio storico

                   5permille

   

di Edoardo Vigna

Corriere della Sera, 10 novembre 2023

Il Nobel per la pace che ha scelto di correre come presidente: “Le aggressioni crescono intorno alle aree minerarie. C’è un legame fra degrado ambientale e danno alle comunità”. Nel 2018, un anno prima del Covid, Denis Mukwege, 68 anni, ha vinto il Premio Nobel per la Pace: ginecologo e ostetrico, aveva fondato l’ospedale Panzi di Bukavu, nella parte orientale della Repubblica Democratica del Congo, dove è diventato uno dei massimi esperti mondiali nel trattamento dei danni fisici dovuti allo stupro. Stupri di guerra, per lo più, quelle guerre che nel suo Paese sono senza fine. All’ospedale, e con la sua Fondazione, ha curato più di 80mila donne. Ora ha deciso di provare a cambiare le cose anche in un altro modo: alle elezioni di dicembre correrà per la presidenza di un Paese di 90 milioni di persone, pieno di immense ricchezze naturali sfruttate senza limiti né rispetto, e di altrettanto enormi povertà. Essere stato così immerso negli orrori dei più diversi conflitti ha dato al dottor Mukwege la forza e la convinzione di vedere cosa occorre fare: da dove si deve partire, allora, per creare una società giusta e sostenibile?

“Per costruire una società del genere qui dobbiamo prima affrontare le cause profonde della violenza e dei conflitti. Per me, raggiungere l’uguaglianza di genere è una componente chiave. È imperativo dare priorità all’eliminazione della violenza sessuale e di genere. Inizia con la garanzia dell’accesso alle cure, l’attuazione di strategie di prevenzione, il rafforzamento delle reti di supporto a chi è sopravvissuto e dei meccanismi legali per perseguire i trasgressori. Allo stesso tempo, dobbiamo adottare misure di “giustizia di transizione”, offrendo riparazione per le atrocità del passato e promuovendo la riconciliazione all’interno della comunità. Combinando questi sforzi con l’impegno per la sicurezza, l’istruzione, l’emancipazione economica e una governance responsabile, possiamo aprire la strada a una società fondata sulla dignità, l’uguaglianza e una pace duratura”.

Lei ha detto: “Credo nel cambiamento, altrimenti avrei abbandonato la battaglia. Non ho dubbi che i congolesi sarebbero in grado di scavalcare le montagne: hanno solo bisogno di sapere che il cambiamento è possibile”. Qual è il primo cambiamento necessario?

“Quello cruciale è la fiducia collettiva nella possibilità del cambiamento stesso. Quando il popolo congolese crederà con tutto il cuore nella propria capacità di spezzare il ciclo dello sfruttamento e della sofferenza, troverà la forza e la determinazione per affrontare le cause profonde della violenza e promuovere la giustizia. Questa è la pietra angolare di ogni futuro di speranza”.

Cosa le fa ancora credere negli esseri umani, nonostante ciò che ha visto?

“È proprio perché sono stato testimone dell’incredibile resilienza e forza degli esseri umani, in particolare delle donne che ho curato all’ospedale e alla Fondazione Panzi che hanno vissuto orrori indicibili. Nonostante sopportino un dolore inimmaginabile, trovano il coraggio di guarire e ricostruire non solo le loro vite, ma anche le loro comunità. La loro forza è stata la forza trainante della mia dedizione a questo lavoro per oltre 25 anni”.

La sostenibilità riguarda anche l’ambiente in cui vivete. La foresta del fiume Congo è il primo polmone verde della Terra, miniera delle materie più appetite da grandi potenze e multinazionali, oro o coltan che sia. L’avidità per queste risorse non può che alimentare il ciclo di violenza e instabilità...

“È un circolo vizioso, guidato dalla domanda di minerali critici per la cosiddetta transizione verde dell’Occidente, che aggrava le sfide ambientali che la regione deve affrontare. Alla Fondazione abbiamo osservato una correlazione preoccupante: i tassi di violenza sessuale aumentano intorno alle aree minerarie. Ciò evidenzia il legame diretto tra lo sfruttamento delle risorse, il degrado ambientale e il danno alle comunità vulnerabili. È fondamentale affrontare questi problemi sistemici nell’industria mineraria, fornendo al contempo un supporto alle sopravvissute. In tal modo, possiamo proteggere sia le donne sia l’ambiente da ulteriori danni”.

Il suo Paese chiede maggiori finanziamenti per i progetti climatici. Senza, nuove trivellazioni petrolifere potrebbero sostituire le piccole attività, portando altre devastazioni sociali e ambientali...

“Penso che il più importante “progetto climatico” nella Repubblica Democratica del Congo dovrebbe concentrarsi sull’eliminazione dello sfruttamento, della violenza e degli abusi sessuali prevalenti nelle comunità minerarie. Affrontare questo problema critico riduce il degrado ambientale associato all’estrazione delle risorse ma dà anche priorità alla sicurezza e alla dignità delle donne colpite in modo sproporzionato dalla violenza sessuale in queste aree. Concentrarsi sull’eliminazione di tale violenza stabilisce un precedente vitale per una gestione responsabile delle risorse, e significa creare un ambiente in cui il benessere delle comunità e la conservazione del mondo naturale siano tenuti in uguale considerazione”.

Viviamo tempi orribili, che lei conosce bene. Qual è la prima cosa a cui pensa quando pensa alla guerra?

“Quando penso alla guerra non posso fare a meno di pensare al suo impatto sproporzionato sui più vulnerabili. I corpi delle donne e dei bambini troppo spesso diventano il campo di battaglia. Sono testimone delle sopravvissute agli stupri in tempo di guerra, l’insondabile sofferenza che sopportano pesa molto sul mio cuore. Dai neonati alle donne di 80 anni: la violenza non conosce limiti”.

Qual è la cosa più terribile a cui lei ha dovuto assistere?

“Ho assistito a non poche atrocità. Dal massacro dell’ospedale di Lemera - dove ho iniziato la mia carriera e dove sono stati uccisi i miei pazienti e colleghi - al reparto chirurgico di Panzi, dove ho operato i corpi di piccoli violentati. Sono queste le cose che mi motivano a continuare a lottare”.

Lei è il massimo esperto di ricostruzione interna del tratto genitale femminile dopo uno stupro, guida un team di migliaia di persone che compiono anche 10 interventi chirurgici al giorno. Accanto al suo ospedale ha costruito una struttura dove le pazienti - e i loro bimbi - trovano rifugio. Le donne imparano a cucire, a tessere, per diventare autosufficienti e ricominciare a vivere. Ma è possibile ricominciare a vivere dopo un’esperienza così devastante?

“Il potere delle donne è dimostrato ogni giorno dalla resilienza e dall’ottimismo delle nostre sopravvissute, molte delle quali hanno sperimentato l’inimmaginabile. Eppure, nonostante la sofferenza, sono determinate a costruire una vita migliore per sé stesse e, se sono madri, per i loro figli. Una componente chiave del modello Panzi è fornire alle pazienti non solo cure mediche, ma anche opportunità di buona vita. Molte di loro sono state abbandonate dalle famiglie e noi le dotiamo di competenze e risorse lavorative essenziali, consentendo di ritrovare indipendenza e fiducia in sé stesse. Forniamo supporto psicologico e accesso ai servizi legali: testimoniare il potere trasformativo di questo approccio olistico fa riaffiorare la forza dello spirito umano, anche di fronte a un dolore profondo”.

La Fondazione Lavazza e la Fondazione Panzi hanno avviato un nuovo grande progetto triennale: l’obiettivo è dare accesso a nuove opportunità lavorative alle vittime di violenza, attraverso un percorso di formazione nella produzione e commercializzazione del caffè, in particolare la coltivazione e la tostatura dei chicchi, per 300 donne. Il Sud Kivu, dove ha sede Panzi, è la principale regione di coltivazione del caffè nella RDC. Perché è importante?

“Questo progetto affronta la questione critica dell’emancipazione economica per le donne vittime di violenza. È pensato per essere completo, per avere un impatto su ogni livello della catena di approvvigionamento del caffè. Sostenendo le sopravvissute e altre donne vulnerabili, apre nuove opportunità e fornisce loro capacità preziose in un settore fiorente. Una delle sue caratteristiche innovative è la formazione a più livelli: le donne sono dotate non solo delle competenze per coltivare e raccogliere i chicchi di caffè, ma anche per tostarli e servire come bariste. Questo approccio multilivello è strategico, consente loro di beneficiare dell’aspetto fondamentale della catena di approvvigionamento, ma anche di attingere alle fasi più redditizie. Rappresenta uno sforzo olistico per dare potere alle donne che hanno affrontato sfide immense. E catalizza un impatto trasformativo che va ben oltre l’emancipazione economica immediata, dando forma a una distribuzione globale più equa della ricchezza e a un futuro più equo e resiliente per queste donne e per le loro comunità. Eh sì, perché sfrutta anche il significato storico del caffè nella RDC per creare un futuro sostenibile per tutti”.

In vent’anni, l’ospedale e la Fondazione Panzi hanno sviluppato un modello di sostegno per le donne che, fra i molteplici ostacoli, hanno affrontato anche lo stigma sociale che può arrivare a impedire loro di tornare nelle comunità e nelle famiglie. Dei 4 pilastri (cure mediche, supporto psicologico, aiuto legale e reinserimento socioeconomico) è su quest’ultimo che si muove la collaborazione con Fondazione Lavazza. È così essenziale essere indipendenti?

“Raggiungere l’indipendenza è davvero un aspetto vitale del processo di recupero. Svolge un ruolo cruciale nel consentire di ricostruire la propria vita. Permette di provvedere a sé stesse, ma anche di contribuire alle comunità e famiglie. Attraverso collaborazioni come con la Fondazione Lavazza, le donne acquisiscono un senso di professionalità e autosufficienza. Che fa molto per superare lo stigma sociale associato alle loro esperienze passate e le aiuta a reintegrarsi con dignità e scopo. Inoltre, questa collaborazione contribuisce anche alla trasformazione della società. Stiamo creando un’industria più inclusiva ed equa coinvolgendo le donne a tutti i livelli della catena di approvvigionamento del caffè. Questo abbatte i tradizionali ruoli di genere e sfida le norme sociali, dimostrando che le sopravvissute alla violenza sessuale possono essere partecipanti attive”.

Nel 2012 lei tenne un discorso all’Onu per sensibilizzare il mondo sul problema della violenza come arma di guerra e per condannare l’impunità per gli stupri di massa in Congo. Pochi mesi dopo, quattro uomini armati hanno attaccato la sua casa, tenendo in ostaggio le sue figlie. Dopo quell’episodio, è volato all’estero ma un anno dopo è tornato. Cosa le ha fatto cambiare idea?

“Sono tornato seguendo la chiamata delle donne della comunità, molte delle quali ex pazienti. Hanno iniziato a vendere frutta e verdura per raccogliere i soldi per il mio biglietto aereo di ritorno. Il loro coraggio ha toccato nel profondo il mio cuore, facendomi superare le paure, riportandomi dove c’era più bisogno di me”.

Papa Francesco, che ha incontrato in primavera, ha detto che siamo in una Terza guerra mondiale “a pezzi” che il mondo ha visto con l’invasione dell’Ucraina. Fra le guerre più dimenticate quella in Congo è al primo posto. Fa parte di questo quadro “globale”?

“Innegabilmente. È la crisi umanitaria che ha provocato più vittime dalla Seconda guerra mondiale. Ma ciò che rende questo conflitto particolarmente allarmante è la sua natura geopolitica di lunga data, con diverse nazioni coinvolte. Le conseguenze del non affrontarla vanno ben oltre i nostri confini. I gruppi armati interni, spesso sostenuti da attori esterni, hanno cercato di sfruttare le aree minerarie come mezzo per finanziare le loro operazioni. Gli attori esterni, vicini o potenze globali, sono stati coinvolti o lo hanno indirettamente esacerbato con i loro interessi. L’incapacità di portare qui la pace minaccia il delicato equilibrio dell’economia mondiale”.