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di Padre Giovanni Pross*

L’Unità, 26 giugno 2023

All’entrata del carcere di Kisangani, tra la prima e la seconda porta, alcune donne con qualche rametto di foglie di manioca, un po’ di arachidi, una stuoia, qualche pastiglia contro la malaria, un bicchiere di farina di manioca, stanno barattando con il personale di guardia il permesso di entrare.

Immaginiamo un campo da calcio, con un hangar al centro per incontri e cerimonie religiose, o semplicemente per ripararsi dalla pioggia. I dormitori sono sei. Ci sono poi tre ambienti più chic, abitati da detenuti che si possono permettere di pagare il locale. Questi sono detti “evoluti”, mentre chi è più povero e si accontenta del dormitorio è chiamato “immondezzaio”. Cibo e medicine non esistono. Tutto viene da fuori, dalla famiglia, se ne ha la possibilità, o da gruppi di diverse Chiese. Questo non impedisce di vedere tanta solidarietà con chi non ha visite. Il destino di ognuno è legato a quanto la famiglia riesce a pagare perché un magistrato prenda in mano il tuo dossier.

Tutti sono in attesa di giudizio. Coloro che sono condannati a molti anni di reclusione, vengono trasferiti in un altro carcere, Osio, a 15 km dalla città alla riva sinistra del fiume Congo. Ogni detenuto ha una cella con un letto in cemento (piccolo miglioramento in rapporto alla prigione centrale di Kisangani dove si dorme sul pavimento). Qui, i meno pericolosi possono uscire e lavorare un campo per un minimo di mais, di manioca, di olio di palma, per non morire di fame. Il serbatoio per l’acqua è ormai riempito di tanta sporcizia e l’acqua può venire solo dal rigagnolo che passa a qualche centinaio di metri dal carcere. Persone del villaggio o qualche detenuto più libero, possono prendere dell’acqua in taniche di plastica. Eppure, quando ogni quindici giorni passavo per portare qualcosa come il sapone, un sacco di fagioli e di riso e qualche medicina, trovavo sempre tanta riconoscenza. Trovavo lettere da portare alle famiglie e tante suppliche per avere il modo di accelerare l’uscita.

Le celle sono 100. C’è poi una cella di punizione per coloro che tentano la fuga o creano disordine. Il personale del carcere non è pagato, e così gli agenti sfruttano le visite dei parenti per pagarsi il servizio.

La disciplina all’interno è in mano ai banditi più temuti. In questo modo il personale non è coinvolto direttamente in situazioni di guerriglia interna. Molti sono i tentativi di fuga, quasi tutti finiscono male, perché all’interno ci sono elementi che prevengono il direttore su ciò che si trama.

L’igiene lascia molto a desiderare. Fortunatamente il comitato della Croce Rossa Internazionale e Medici senza frontiere intervengono per trovare delle soluzioni a questo problema.

Durante l’epidemia di colera, o quando qualcuno stava per morire con la quasi certezza che avesse l’AIDS, la direzione del carcere non permetteva ai detenuti ammalati di essere trasferiti all’ospedale generale. Questo, perché nessuna guardia carceraria era disposta ad andare all’ospedale con l’ammalato. Se infatti questo scappava, la colpa ricadeva unicamente su chi era stato messo di guardia.

Il carcere (oltre alle donne e ai minori alloggiati dietro il carcere stesso) accoglie anche militari in attesa di giudizio, perché la cella del carcere militare è troppo piccola. Questo rende ancora più problematica la vita dei civili.

Una piaga, che sembra tuttavia sempre meno presente, è costituita dal modo brutale e inumano di trasportare i detenuti da carceri di città lontane al carcere di Kisangani, capoluogo di regione.

Con dei tondini per cemento da dieci legano i due piedi e le due mani così da impedire la fuga.

Su dei camion e con strade impossibili, sono trasportati per più di 500 km. Il ferro logora e penetra nella carne dove i piedi e le mani sono serrati. All’arrivo a Kisangani si vedono solchi alle caviglie. Siccome il carcere non è dotato di mezzi per liberare questi poveracci, col permesso del direttore portavo il detenuto presso un meccanico per poter tagliare il ferro con la mola a disco.

In RDC è ancora vigente la pena capitale, ma fortunatamente le ultime esecuzioni risalgono agli anni ‘70. Va detto che in ogni centro importante ci sono prigioni che ospitano la gente del posto. Il numero di carcerati aumenta velocemente. Anche qui, la vita e la salute degli ospiti dipendono da diverse Chiese, in particolare da quella cattolica, perché le missioni si trovano anche all’interno della foresta. In RDC il carcere è un mondo a parte, con le sue regole, la sua violenza, la sua gerarchia, ma anche con una certa solidarietà. È comunque certo che all’uscita il detenuto non è migliore di quando è entrato.

*Già missionario dehoniano in Congo