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di Marco Balzano

Corriere della Sera, 13 gennaio 2024

I provvedimenti annunciati sotto la spinta della reazione collettiva all’uccisione di Giulia Cecchettin non sembrano più all’ordine del giorno. Questo agitarsi convulso, così contrario al lavoro di regia e di meticolosa preparazione cui sarebbe chiamata la politica, conduce spesso a cavarsela con gli slogan. Mentre nuovi femminicidi si consumano con una cadenza che dà i brividi - cinque donne dall’inizio dell’anno - i provvedimenti annunciati sotto la spinta della reazione collettiva all’uccisione di Giulia Cecchettin non sembrano più all’ordine del giorno. Così, ora che l’attenzione sul caso sta calando, si avverte meglio la fumosità di tante dichiarazioni, confezionate più per assecondare l’indignazione e lo sconcerto dell’opinione pubblica che per cambiare radicalmente una situazione ormai insostenibile.

Il punto è che le questioni cruciali si affrontano - se si affrontano - sempre sotto la spinta di un’emergenza. Ed emergenza è una parola che non mette più in allerta, perché si usa per ogni problema: un incidente sul lavoro o il caldo estivo, gli sbarchi a Lampedusa o i femminicidi. Questo agitarsi convulso, così contrario al lavoro di regia e di meticolosa preparazione cui sarebbe chiamata la politica, conduce spesso a cavarsela con gli slogan e ad adottare soluzioni che andrebbero meglio elaborate e ponderate più a fondo. Sganciandosi dall’impellenza e facendosi carico per tempo dei problemi, si potrebbero invece individuare con più chiarezza le cause a monte dei fatti di cronaca. Provo a fare qualche esempio.

Nell’emergenza dei mesi scorsi è tornata alla ribalta la necessità dell’educazione affettiva, immediatamente demandata alla scuola. Ma questo governo, con i precedenti e più dei precedenti, non si è particolarmente impegnato a snaturare l’educazione civica - che racchiude tutte le altre educazioni - rendendola un contenitore più confuso di quanto non fosse già? Senza contare che non è prevista una formazione vera e propria per insegnare questa materia. Sottintendere che se ne può occupare qualsiasi docente - che, ben intesi, ci mette intelligenza e buona volontà - significa degradare il sapere psicopedagogico a un insieme di concetti vaghi trasmissibili da tutti, e non è così. Si ribatterà: il governo, d’accordo con l’opposizione, vuole far entrare a scuola gli esperti di educazione affettiva (ma non sessuale). Bene. Allora perché, se le intenzioni e i fondi erano pronti, aspettare l’ennesimo femminicidio? E se invece fondi e progetti mancano, perché imbastire soluzioni frettolose? Perché non studiare e strutturare una nuova e solida proposta educativa capace di fronteggiare la complessità del presente? Chi saranno e come entreranno nelle aule questi esperti? Come faranno lezione? A chi? Quando si comincia? Un annuncio che non preveda tali risposte è buono solo a placare l’opinione pubblica.

Ma usciamo dalla scuola. I consultori e i centri d’ascolto spesso rimangono aperti poche ore al giorno, spesso sono gestiti da volontari e sono collocati in luoghi scomodi da raggiungere. È raro, ad esempio, che si trovino di fronte a scuole frequentate da centinaia di studenti. E soprattutto: i ragazzi sanno della loro esistenza? Sanno che in queste strutture ci sono ginecologi, psicologi e servizi fondamentali nei momenti di difficoltà? Quanta comunicazione viene fatta su questa offerta? Il rischio, in casi simili, è il più grave: lasciare deserte le poche strutture che sopravvivono e far credere così a chi le ritiene inutili di avere ragione.

I numeri sul bonus psicologo parlano da soli: è stato riconfermato, certo, ma ne beneficerà un numero davvero esiguo di cittadini. I soldi investiti nella Sanità cambiano la qualità della nostra vita. La salvano. Permettono, ad esempio, a un reparto di Psichiatria non solo di somministrare medicine, ma anche di affiancare il paziente con un percorso psicoterapeutico, di assistenza e di ascolto, cosa che per mancanza di fondi accade meno di un tempo, riducendo la terapia ai soli farmaci, con buona pace di Franco Basaglia.

Penso, infine, alle forze dell’ordine. Capita che una denuncia venga sottovalutata o presa in carico con troppa lentezza. Mi chiedo se la formazione in itinere manchi solo nella scuola o se il problema, come credo, sia sistemico. Senza personale e senza formazione non ci saranno mai protocolli né tempi chiari e il cittadino non si sentirà davvero tutelato nemmeno dopo aver denunciato. La soluzione non può essere solo repressiva: la sicurezza è prioritaria ma non è l’unica priorità. I primi obiettivi dell’educazione sono la civiltà e il rispetto. E l’educazione è uno strumento di relazione che si può apprendere, una forma mentis che si può acquisire. Chi investe di più in educazione ha maggiori capacità di interpretare il presente e di portare avanti esperienze che a volte restano ancora troppo marginali. Un esempio tra i tantissimi: affiancare al telefono rosa per chi è abusato, i centri per chi realizza di avere pulsioni violente o possessive. Spesso si tratta di piccole realtà senza fondi adeguati e sempre sul punto di chiudere, ma non mancano né i modelli positivi né una robusta tradizione di studi per guidarci. Dove ci sono investimento, formazione e personale, lo sguardo cambia, la riflessione si apre e si aggiorna, e la violenza non appare più un problema delle donne, ma una questione politica e sociale di tutta la collettività. Nessuno escluso.