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di Donatella Stasio

La Stampa, 28 dicembre 2023

Il governo dei record. Negativi. Giorgia Meloni batte i suoi predecessori non solo per numero di decreti legge e voti di fiducia ma anche per numero di nuovi reati, pensate, uno al mese, quasi tutti introdotti per decreto, già 15, in un crescendo impressionante. Ed ecco che anche un terzo record si profila all’orizzonte, sul sovraffollamento delle patrie galere, e sarà un record europeo, o quasi, se di qui alla fine della legislatura non dovessero esserci inversioni di marcia nelle politiche penali, penitenziarie, sociali.

La popolazione detenuta sta crescendo al ritmo di oltre 400 presenze al mese e al 6 dicembre era di 60.232 reclusi, con un tasso di crescita del 7% e di sovraffollamento del 126%, ma con punte del 165% in Puglia e del 152% in Lombardia. Tutto ciò, attenzione, nonostante le misure alternative alla detenzione, le misure di comunità e le pene sostitutive: in tutto 84.023 persone già sottratte al circuito carcerario. Di questo passo, fra qualche mese l’Italia tornerà indietro di dieci anni, quando fu condannata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (con la sentenza Torreggiani) per trattamenti inumani e degradanti nei confronti dei detenuti proprio a causa del sovraffollamento record (62.536 presenze) che non garantiva condizioni di vita dignitose. Allora, la Corte costituzionale fu a un passo dal sancire il “numero chiuso” e le liste d’attesa nelle carceri sold out (tecnicamente, il rinvio dell’esecuzione della pena). Oggi è di nuovo, e di più, emergenza. Ma il governo non la vede arrivare.

Basta fare un giro nei penitenziari per verificare l’abbandono delle carceri. Sempre più fatiscenti, sempre più chiuse, all’esterno e all’interno, sempre più oziose e malate, 149 i morti, 67 i suicidi, piene di poveri, immigrati, malati psichiatrici, di persone tossicodipendenti e anche di minori stranieri. Con una capienza effettiva di 47.683 posti, ci sono 12.549 detenuti “in più”, tanto che i nuovi giunti spesso dormono su materassi a terra. Non sappiamo esattamente quanti siano perché, a differenza di altri Paesi come la Francia dove il “matelas au sol” viene dichiarato dal ministero della Giustizia, da noi non ce n’è traccia nei rapporti ufficiali di via Arenula. Sappiamo però che la situazione è gravissima ovunque, in particolare in Puglia e in Lombardia, ma anche in Veneto, nel Lazio, in Basilicata, Friuli e in molte altre regioni; sappiamo che a Brescia Canton Mombello il tasso di sovraffollamento è del 215%, a Foggia del 203, a Como del 200 e poco meno a Taranto, Grosseto, Busto Arsizio, Bergamo, Lodi, Monza... Sappiamo che i detenuti vivono oltre ogni ragionevole limite compatibile con gli spazi legali e con le prescrizioni costituzionali del rispetto della dignità e della funzione rieducativa della pena. Ma che valore ha, oggi, la Costituzione?

Domanda più che legittima visto che non solo il carcere è tornato in larga parte al regime delle “celle chiuse” ma, soprattutto, è tornata in auge proprio l’idea che i detenuti debbano marcire in galera, chiusi a doppia mandata, e che la chiave debba essere buttata per tutta la durata della detenzione, altrimenti non è carcere. E ciò, in ossequio a una promessa di sicurezza tanto illusoria quanto ingannevole. Giustizia come vendetta, insomma. Non ce n’è traccia nella Costituzione ma questo è quel che piace alle destre di governo, con tanti saluti e grazie alla civiltà del diritto conquistata nel dopoguerra, in Italia e in Europa, di cui le Costituzioni e le democrazie costituzionali sono figlie.

In questo smarrimento collettivo dei valori costituzionali, una lezione ce l’ha data Manuela Mareso, la moglie di Marco Nebiolo, massacrato di botte da un ragazzo di 16 anni dopo un tamponamento. Subito Matteo Salvini aveva twittato che il codice della strada non basta, che ci vuole il carcere, come se già non ci fosse... “Mi demoralizza il suo modo di alimentare e spargere ignoranza in un Paese dove credo ce ne sia già abbastanza, usando slogan che vanno alla pancia delle persone e fomentano solo odio e rancori - aveva riflettuto mesta Manuela -. Provo una sensazione di scoramento. Non credo che a quel ragazzo possa servire il carcere. Forse ne uscirebbe peggiore. Probabilmente gli sarebbe servita un’altra famiglia”.

Lo “scoramento” di Manuela Mareso ricorda lo “sconforto” dei detenuti di cui parla la Corte di Strasburgo nella sentenza Torreggiani come effetto del sovraffollamento: quella sensazione di abbandono che può diventare patologica e portare all’isolamento, all’aggressività verso gli altri e verso se stessi, fino al suicidio. Il carcere diventa ancora più patogeno e criminogeno.

Si potrebbe obiettare che con il suo tasso di carcerazione per 100 mila abitanti l’Italia non è fuori scala. Ma quand’anche fosse così, resta il totale abbandono delle carceri, sia come stato dei luoghi sia come servizio funzionale al reinserimento sociale del detenuto, che è poi l’obiettivo costituzionale della pena. Non c’è un piano, una strategia, uno sguardo lungo, ma indifferenza, slogan, propaganda su caserme e nuove carceri. La realtà è che nel 2026 avremo solo 8 nuovi padiglioni da 80 posti, ovvero 640 posti letto regolamentari aggiuntivi, a fronte di un’”eccedenza” che già oggi è di 12.549 persone.

In questa situazione, è prevedibile che l’Italia incorra in una nuova condanna della Corte di Strasburgo. E chissà, magari è proprio questo che aspetta il governo, per essere “costretto” a fare qualcosa di “impopolare”: rendere il carcere a misura di Costituzione. Oppure si aspetta la Consulta, se qualche giudice solleverà la questione. Nel 2013, la Corte presieduta da Gaetano Silvestri ammise, con la sentenza 279 scritta da Giorgio Lattanzi, che il problema esisteva ed era strutturale, ma concluse che spettava al legislatore risolverlo perché le soluzioni erano molteplici, dalle “liste d’attesa” a un più esteso ricorso alle misure alternative. Sottolineò però la necessità di individuare un “rimedio estremo” da attivare quando le misure interne non bastano e che “permetta una fuoriuscita dal circuito carcerario del detenuto costretto a vivere in condizioni contrarie al senso di umanità”.

La Corte si astenne dal decidere direttamente perché la risposta non era “a rime obbligate”, proprio per la pluralità di soluzioni possibili. Oggi, però, forse le conclusioni potrebbero essere diverse. Non solo perché, nel frattempo, né l’incremento delle misure alternative alla detenzione né l’applicazione delle pene sostitutive hanno impedito l’attuale emergenza, ma anche perché negli ultimi anni la Corte ha superato le cosiddette “rime obbligate” di fronte a diritti fondamentali violati e alla necessità di tutelarli, senza invadere il campo del legislatore. È accaduto, ad esempio, con la sentenza 40 del 2019, che ha rideterminato la pena in materia di droghe ispirandosi a sanzioni già previste dall’ordinamento nella stessa materia. La Corte potrebbe dunque mettere in mora il legislatore fissando un termine stretto e, in caso di inerzia, far scattare una delle soluzioni già previste dall’ordinamento. La dignità è, o non è, il diritto dei diritti?

L’estrema urgenza della situazione non giustifica inerzie legislative. E allora, si cominci anche a ragionare sul numero chiuso, sulle liste d’attesa. Si cominci a “liberare” il carcere dalle persone che non dovrebbero starci: psichiatrici, tossicodipendenti, immigrati irregolari, poveri e detenuti con pene fino a due anni (sono 20 mila). Tutte persone per le quali il carcere, questo carcere, non può avere alcuna funzione rieducativa e che potrebbero scontare la pena in luoghi diversi, come ha ripetutamente proposto Mauro Palma, Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, ormai scaduto dal mandato (e appena insignito dal presidente della Repubblica dell’onorificenza di Grande ufficiale della Repubblica). Uno sguardo e una voce che ci mancheranno.