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di Vladimiro Zagrebelsky

La Stampa, 3 dicembre 2023

Nella esposizione del ministro Crosetto alla Camera ha assunto un peso centrale la parola “contromaggioritaria” usata nel corso di un convegno di magistrati per designare la funzione propria della magistratura. Non si tratta di termine occasionalmente inventato per chiamare la magistratura all’eversione e alla lotta contro il Governo, ma di una nozione acquisita da lungo tempo nei sistemi di democrazia costituzionale, dove è largamente accettata, anche se pone la cosiddetta countermajoritarian difficulty.

La formula inglese è qui adottata proprio per liberare il tema dalle ristrettezze della politica interna. La ricchezza e problematicità della questione sottostante la definizione dovrebbero consigliare prudenza al dibattito politico sorto dopo la nota intervista del ministro ed anche, per altro verso, invitare i magistrati ad altrettanta prudenza lessicale e concettuale nel linguaggio adottato.

Il contesto infatti in cui certe parole vengono usate può forzarne e snaturarne il senso, facilitando incomprensioni da cui seguono sia allarmi, sia strumentalizzazioni. Diverso è infatti il senso di un richiamo al ruolo che può risultare contromaggioritario, proprio del giudice che decide la causa, rispetto a quello diverso di una contrapposizione generale al Governo e alla sua maggioranza politica, che sia assunto e rivendicato dalla magistratura nel suo insieme o da un gruppo di magistrati. Quest’ultimo sarebbe tanto improprio quanto il suo inverso, di una sistematica pretesa di sintonia -necessariamente servente - rispetto agli orientamenti e ai provvedimenti del potere esecutivo e della maggioranza che lo sostiene. In questo senso l’assimilazione espressa dal ministro dei magistrati ai prefetti e ai generali è del tutto fuori luogo. Per Costituzione la magistratura è autonoma e i giudici soggetti soltanto alla legge, non i generali o i prefetti.

Nell’Occidente democratico i Parlamenti e le maggioranze politiche che vi si creano non dispongono di un diritto senza limiti di legiferare. Le Costituzioni in varie forme sono rigide, sovraordinate alle leggi. Queste devono essere compatibili con le previsioni della Costituzione. Nel sistema italiano, il giudice che per risolvere un caso deve applicare una legge di cui sospetta il contrasto con la Costituzione (dubbio “non manifestamente infondato”) deve sospendere il procedimento e rimettere la questione al giudizio della Corte costituzionale. Se poi la Corte costituzionale ritiene l’incostituzionalità della legge, la dichiara, così determinandone l’inapplicabilità. In tal modo in un percorso giudiziario e con effetto “contromaggioritario”, viene annullata una legge approvata dalla maggioranza in Parlamento. L’attivazione e poi la decisione di quel procedimento non è una facoltà dei giudici, ma un loro dovere costituzionale. In questo è visibile un forte limite alla maggioranza politica, non ostante ch’essa sia legittimata dal voto del popolo, titolare della sovranità. D’altra parte, lo stesso popolo, come dice l’art. 1 della Costituzione, esercita la sovranità “nelle forme e nei limiti della Costituzione”. Prima di sollevare una questione di costituzionalità della legge il giudice è tenuto a cercare l’interpretazione che la renda compatibile con la Costituzione. Si tratta di un esercizio non facile e produttivo di soluzioni spesso opinabili e legittimamente controvertibili. Il motivo risiede principalmente nel fatto che la Costituzione non è univoca, particolarmente quando riconosce diritti e libertà fondamentali o afferma principi come quello di eguaglianza o di rispetto della dignità delle persone o di “pieno sviluppo della persona umana”. Vari principi e valori costituzionali il più delle volte concorrono e possono entrare in conflitto, richiedendo non facile bilanciamento.