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di Giovanni Negri

Il Sole 24 Ore, 12 luglio 2023

Non deve sempre soccombere l’attenuante della particolare tenuità del danno nei confronti dell’aggravante della recidiva. A cancellare questa “stortura” del Codice penale è arrivata ieri la sentenza della Corte costituzionale n. 121, scritta da Francesco Viganò.

La Consulta, chiamata in causa dal Gup di Grosseto, ricorda il perimetro applicativo dell’attenuante, i reati contro il patrimonio o che comunque offendono il patrimonio, trai quali spiccano i delitti di estorsione e rapina, per i quali la pena minima prevista è assai elevata, 5 anni. E la sentenza sottolinea che le condotte comprese in queste fattispecie sono non raramente di modesto disvalore: non solo con riferimento all’entità del danno patrimoniale provocato alla vittima, che può anche ammontare (come nel caso approdato sino alla Corte) a pochi euro sottratti alle casse di un supermercato; ma anche con riferimento alle modalità della condotta, che può esaurirsi in forme minime di violenza (come una lieve spinta) oppure nella semplice prospettazione verbale di un male ingiusto, senza uso di armi odi altro mezzo di coazione.

“Anche rispetto a simili fatti - osserva la Corte - la disciplina vigente impone una pena minima di cinque anni di reclusione: una pena che risulterebbe, però, manifestamente sproporzionata rispetto alla gravità oggettiva dei fatti medesimi, anche in rapporto alle pene previste per la generalità dei reati contro la persona, se l’ordinamento non prevedesse meccanismi per attenuare la risposta sanzionatoria nei casi meno gravi”.

L’effetto di mitigazione della pena tipico di tutte le circostanze attenuanti, compresa quella del danno patrimoniale di particolare tenuità, rispetto all’elevato minimo edittale previsto dal legislatore peri delitti di rapina ed estorsione è però destinato a essere sistematicamente azzerato, quando all’imputato è contestata la recidiva reiterata, evento che spesso si verifica nella prassi, rispetto a questa specifica tipologia di imputati, ricorda la Consulta.

L’attuale divieto di prevalenza dell’attenuante sull’aggravante della recidiva impedisce così al giudice, con l’eccezione delle possibili diminuenti collegate alla scelta del rito, di prevedere una pena inferiore al minimo edittale, e dunque a cinque anni di reclusione. Tanto più che deve essere escluso che “il giudice sia tenuto a non applicare l’aggravante della recidiva, in presenza di una più accentuata colpevolezza e pericolosità dell’imputato, soltanto per evitare di dover irrogare una pena eccessiva rispetto al disvalore del fatto”.