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di Ermanno Paccagnini

Corriere della Sera - La Lettura, 18 settembre 2022

Nel libro “Mille giorni che non vieni”, di Andrej Longo (Ed. Sellerio), un uomo esce dal carcere e cerca di rifarsi una vita onesta, provando a conquistare l’affetto della figlia e a riconquistare quello della moglie. Ma l’autore, innescandone il senso di giustizia, lo mette in mezzo a una storia drammatica.

C’è un aspetto che incuriosisce nei ringraziamenti posti a fine volume. Perché, proprio mentre ti appresti a scrivere che da una prospettiva strutturale, Mille giorni che non vieni di Andrej Longo presenta una nuova svolta rispetto a “Solo la pioggia” del 2021, pur in presenza d’un “problema di coscienza» a legare i due romanzi, là leggi che questa storia è nata “molti anni fa, quando di altre storie si parlava».

Un problema di coscienza a sua volta differente, come chiarisce lo stesso protagonista quando, proponendosi al magistrato per una determinata azione, si corregge: “Non lo so se è una questione di coscienza. Per me il fatto è che ci va di mezzo sempre chi non ha niente, sempre i più disgraziati… Perciò alla fine, per rispondere alla sua domanda, penso che non si tratta di una questione di coscienza, ma più che altro di giustizia». Un protagonista, Antonio Caruso, 27 anni, che il lettore incontra in carcere dove ha scontato 6 dei 13 anni per omicidio, ma proprio mentre viene scarcerato perché Polpetta, suo complice, ma che Antò non ha mai nominato, oltre a dichiararsi a sua volta innocente, in punto di morte e come ringraziamento assume su di sé la colpa del delitto.

Antò resta comunque per tutti una persona che è stata in carcere. Lo è innanzitutto per Maria Luce, la moglie muta, che “non tiene proprio più fiducia in me. È questa la cosa che mi fa più male», e che al suo ricomparire cerca di difendere soprattutto Rachelina, la figlia di cinque anni nata mentre si trova in carcere, alla quale però non pare vero di ritrovare quel padre al quale ripete che è “mille giorni che non vieni».

Una persona diversa, Caruso; che a Maria Lù “io ci voglio dimostrare che si sbaglia. Ci voglio dimostrare che qualcosa di buono pure io la so fare»; e che a padre Vincenzo, un prete di borgata che “veniva in carcere un giorno a settimana. In sei anni non ha mai saltato una visita» e dal quale ha appreso a leggere la Bibbia, si rivolge per un posto dove dormire, ed è in e perché anche se “io voglio trovare la mia strada», fatica a trovare lavoro. E proprio per questo finisce nei pasticci: con un usuraio pur di far dei regali alla figlia; trovandosi di conseguenza costretto ad accettare qualunque lavoro per restituire il prestito.

Così, pur essendo senza patente ma avendo appreso a guidare da piccolo col padre camionista, accetta “ottocento euro per portare un camion di pomodori mezzi marciti» da Napoli in Calabria, viaggiando solo di notte e scortato da due macchine, con una falsa patente, e col sospetto “che sotto ci sta qualcosa di storto. Però non posso andare troppo per il sottile. Mò l’importante è che mi sfrutto l’occasione… ‘sti soldi mi servono ed è meglio che non faccio più domande». Insomma: una storia nella quale “non sto tranquillo; ci stanno troppe cose strane, troppi misteri»; i quali si manifestano quando, nel viaggio di ritorno, avvertendo alle spalle un colpo di tosse e poi un canto in una lingua sconosciuta, si sente combattuto tra l’andare a verificare e il “chiunque ci sta è meglio che ti fai i fatti tuoi. Tu niente sai e niente devi sapere devi solo portare il camion». Sennonché, “vulesse proprio sapè chi ci sta dentro a questo camion!», scopre che quel camion che all’andata nascondeva con ogni probabilità ben altri loschi traffici.

Di qui il tradursi delle sue interrogazioni in un sentimento di umanità che lo spinge, una volta arrivato, a “tornare nel capannone e controllare meglio dentro a quel camion. È un desiderio da scemi, lo capisco, però è venuto e non riesco a scacciarlo». Con quanto ne consegue (e non è il caso di svelarlo), soprattutto quando decide di portare in ospedale uno di quei bambini che fatica a respirare, lasciando false generalità.

Sono tutti elementi che dicono di come, rispetto alla struttura da teatro da camera che caratterizzava il precedente romanzo, Mille giorni che non vieni, pur conservando un’ambientazione prevalentemente chiusa - il carcere, la notte in camion - viri verso risvolti noir (non senza qualche eccesso horror), perdendo di conseguenza in dimensione psicologica, qui prevalentemente concentrata sul protagonista, su moglie e figlia e gli amici del carcere (delicato è pure il ricordo della nonna), mentre figure sostanzialmente topiche restano malavitosi e avvocato difensore, lasciando volutamente nell’ambiguità quella del magistrato Sacripante, “un tipo in gamba e non prevenuto» che “scrive tutto in un quaderno nero»; quaderno che fa però capolino nelle mani dei malavitosi al momento della resa dei conti dai risvolti filmici.

Ha dunque una costruzione più tradizionale questo romanzo, occasione per “riflettere sul senso profondo di quello che cercavo di raccontare», in particolare su “quel labirinto inaccessibile che si chiama giustizia». E si tratta di temi scottanti: dalla situazione carceraria, “dove il tempo sembra non passare mai» e “devi aspettare per qualunque cosa», col tragico problema dei suicidi; il difficile reinserimento sociale anche per il malfunzionamento delle strutture amministrative (Comune, Asl); usura e pedofilia; e soprattutto il mondo del crimine rivisitato nella sua dimensione più disumana, quale il traffico di migranti finalizzato al commercio di organi. Il tutto affidato a un io narrante minuzioso che deposita racconto e problemi in una scrittura paratattica, franta, spezzettata, che ben gestisce gli impasti tra sintassi del parlato dialettale e italiano; e, pur con qualche divagazione da limare, capace d’un crescendo narrativo con conclusione tesissima, cinematografica, e lasciata “in levare».