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di Umberto De Giovannangeli

L’Unità, 9 luglio 2023

“Non dimenticherò ma i bambini che mi chiedevano: “Perché viviamo così? Che cosa abbiamo fatto?” È gravissimo che la comunità internazionale tolleri un sistema così intriso di illegalità. Dopo giorni di distruzione e morte, le forze armate israeliane si sono ritirate da Jenin, Cisgiordania. Ma è solo una parentesi. Una tregua armata. L’Unità ne discute con chi la realtà palestinese conosce come pochi altri al mondo: Francesca Albanese, Relatrice Speciale Onu sulla situazione dei diritti umani nei Territori Palestinesi.

Per il suo lavoro puntuale di documentazione e denuncia, la dottoressa Albanese è stata oggetto di attacchi da parte di organizzazioni legate alla destra israeliana e da esponenti della destra italiana come l’ex ambasciatore e oggi parlamentare di Fratelli d’Italia, Giulio Terzi di Sant’Agata, che ne ha chiesto la destituzione dall’incarico in una lettera pubblicata da La Repubblica. Richiesta che ha suscitato proteste e reazioni di sdegno in Italia e all’estero, a cominciare dal quella di Amnesty International: “È allarmante che le più alte cariche di politica estera dei nostri governi si facciano portavoce delle istanze anti-Onu di organizzazioni impegnate a proteggere violazioni pluridecennali del diritto internazionale. Questo atteggiamento denota oltretutto un certo analfabetismo istituzionale, visto che gli esperti e le esperte indipendenti Onu sono, per definizione, protetti da pressioni di qualsiasi governo, incluso ovviamente il governo del proprio stato”.

“Non ci sono molte popolazioni al mondo così indifese come i palestinesi che vivono nel loro Paese. Nessuno protegge le loro vite e le loro proprietà, tanto meno la loro dignità, e nessuno intende farlo. Sono totalmente abbandonati al loro destino, così come le loro proprietà. Le loro case e le loro auto possono essere incendiate, i loro campi dati alle fiamme. È giusto sparare senza pietà, uccidendo vecchi e bambini, senza forze di difesa al loro fianco. Nessuna polizia, nessun militare: nessuno. Se viene organizzata una forza di difesa disperata, viene immediatamente criminalizzata da Israele. I suoi combattenti vengono etichettati come “terroristi”, le loro azioni come “attacchi terroristici” e i loro destini sono segnati, con la morte o la prigione come uniche opzioni. Chi fa resistenza va combattuto ed eliminato. Ogni palestinese sotto occupazione diventa una minaccia potenziale, da neutralizzare”. Così scrive Gideon Levy, firma storica di Haaretz, in un articolo rilanciato da l’Unità. Siamo a questo dottoressa Albanese?

Come sa io mi occupo solo di una parte del territorio controllato da Israele, quello che è sotto occupazione dal 1967, cioè Striscia di Gaza, Cisgiordania e Gerusalemme est. Nel mio ultimo rapporto, pubblicato ieri, concludo che durante 56 anni di occupazione militare che è servita ad acquisire illegalmente terre e risorse palestinesi, Israele ha progressivamente ridotto i Palestinesi ad una sorta di popolazione priva dello status di persone protette e dei diritti fondamentali dal diritto internazionale. Questo è inaccettabile. Trattare un intero gruppo (e popolo) come una minaccia collettiva e incarcerabile a priori, come Israele fa, erode la loro protezione come “civili” secondo il diritto internazionale, privandoli delle loro libertà fondamentali e dell’abilità di unirsi, autogovernarsi e svilupparsi come entità politica. Qualsiasi palestinese che si opponga a questo regime, dal manifestante pacifico all’agricoltore che si ostina a coltivare le sue terre, dall’avvocato che difende i diritti dei prigionieri ad un genitore che chiede il rilascio della salma del proprio figlio per darvi degna sepoltura, è considerato una minaccia e può essere detenuto. Ciò costringe i palestinesi in uno stato di vulnerabilità permanente. Questo non significa giustificare i palestinesi se e quando commettano dei crimini, ma semplicemente comprendere il contesto nel quale vivono, che non è diverso da una forma strutturata e multidimensionale di prigionia diffusa. Questa situazione rafforza lo squilibrio di potere tra i palestinesi e le istituzioni e gli insediamenti israeliani, facilitando l’espansione dei coloni. Confondendo la “sicurezza della potenza occupante” con la “sicurezza dell’occupazione stessa”, Israele utilizza la “sicurezza” come mezzo per assicurarsi il controllo permanente sul territorio che occupa e cerca di annettere (particolarmente la Cisgiordania, come Gerusalemme est). Ciò ha radicato la segregazione, la sottomissione, la frammentazione e, in definitiva, la confisca delle terre palestinesi e lo spostamento forzato dei palestinesi. Questo sistema, concepito principalmente per garantire l’instaurazione e l’espansione delle colonie, soffoca la vita palestinese e mina l’esistenza collettiva dei palestinesi.

Scrive ancora Gideon Levy, prima del bagno di sangue a Jenin: “Questa settimana, altri palestinesi saranno uccisi senza motivo e le loro proprietà saranno distrutte. I bambini bagneranno i loro letti, temendo qualsiasi fruscio nel cortile, sapendo che i loro genitori non possono fare nulla per proteggerli. Ancora una volta, i palestinesi saranno lasciati indifesi. L’invasore è legittimo e chi difende la sua vita e la sua proprietà è un terrorista. I criteri morali sono incomprensibili nella loro assurdità”...

È gravissimo che la comunità internazionale tolleri un sistema così intriso di illegalità, che la parola apartheid a mala pena cattura, senza rendersi conto di come questa tolleranza eroda l’ordine internazionale basato sull’applicazione equa e non discriminatoria del diritto internazionale.

In Ucraina l’Europa e l’Occidente si sono mobilitati in difesa dell’aggredito. In Palestina è il silenzio. Due pesi, due misure?

La politica dei doppi standard che è inequivocabilmente applicata alla Palestina continua a rivelare una matrice discriminatoria nell’applicazione del diritto internazionale. Ad esempio: gli obblighi universali di vietare l’acquisizione di territorio con la forza, di non imporre regimi di dominio razziale e di rispettare il diritto all’autodeterminazione di ogni popolo non possono essere trattati come voci di un menu à la carte. Se questi obblighi vengono applicati in modo arbitrario da coloro che detengono il potere, non si tratta più di diritti, ma di privilegi accordati o negati a loro discrezione. La trasformazione dei diritti umani in privilegio tradisce la loro essenza e scopo fondamentale.

Per aver documentato i crimini commessi dai coloni nella Cisgiordania occupata Lei è stata accusata di essere “filo palestinese”. È così difficile fare il proprio lavoro in Terrasanta?

Il mio impegno è quello di documentare e riportare oggettivamente i crimini commessi da chiunque, indipendentemente dalla loro affiliazione o provenienza. Il diritto internazionale non è favorevole a nessuna parte in particolare. Tuttavia, è evidente che Israele viola in modo significativo questo diritto, e ciò pone i palestinesi in una posizione di forza nel richiamo al rispetto delle norme internazionali. Allo stesso tempo, la delegittimazione dell’altro - come del mio mandato e della mia persona - è un modo per deviare l’attenzione e attaccare la credibilità di chi porta avanti un messaggio scomodo. Nella mia missione, faccio del mio meglio per svolgere il mio lavoro in modo imparziale e oggettivo, pur essendo consapevole delle sfide che si presentano in un contesto così complesso come la questione israelo-palestinese.

Della sua esperienza sul campo, quali sono le immagini, gli eventi che più l’hanno colpita e che porterà con sé?

La cosa che mi ha colpito di più, anche di me stessa, è il senso di profondo malessere che ho provato durante gli anni in cui ho vissuto a Gerusalemme, un’avversione fisica alla patente disuguaglianza che divide e domina parte dei suoi abitanti. In quegli anni, nelle scuole dell’UNRWA, ho avuto l’opportunità di incontrare bambini e bambine che porterò nel cuore. I loro occhi trasmettevano una profonda sete di conoscenza e speranza, mentre discutevamo dei diritti umani, della libertà e dell’uguaglianza e dei loro progetti, di diventare infermiere o dottore, ingegnere o artista. Ma poi, con un candore disarmante, mi chiedevano: “Perché noi viviamo così? Che cosa abbiamo fatto?”. Domande del genere squarciano il cuore, perché richiamano l’ingiustizia che tanti innocenti affrontano ogni giorno e i limiti ineluttabili della speranza.

In una intervista a questo giornale l’Ambasciatrice di Palestina in Italia ha affermato che sarebbe un atto simbolico dall’alto valore politico se l’Italia riconoscesse unilateralmente lo Stato di Palestina...

È davvero sorprendente che molti stati si impegnino nella retorica dei “due stati per due popoli” ma poi non riconoscano uno dei due. Personalmente, ritengo che in questo momento sia fondamentale richiedere il rispetto del diritto internazionale e l’applicazione della giustizia internazionale. Ciò dovrebbe iniziare con il ritiro delle forze di occupazione e la cessazione di ogni attività di colonizzazione del territorio occupato. È necessario affrontare queste questioni cruciali per creare le basi di una soluzione pacifica e duratura alla situazione israelo-palestinese. Il riconoscimento dello Stato di Palestina da parte dell’Italia potrebbe rappresentare un atto simbolico di grande valore politico, che invierebbe un segnale di sostegno e impegno per il raggiungimento di una pace giusta e duratura nella regione. Ma non deve sostituirsi all’impegno per il ritorno alla legalità.