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di Francesca Sforza

La Stampa, 24 novembre 2023

Il vero angolo cieco nel dibattito sul controllo come forma patologica di dipendenza nelle relazioni affettive - spesso all’origine di gravi episodi di violenza nei confronti delle donne - riguarda il controllo che i ragazzi esercitano l’un l’altro da quando le loro relazioni si sono sempre più strutturate nella dimensione “da remoto” anziché “in presenza”.

Tra le prime cose che fanno due adolescenti che si mettono insieme, infatti, c’è lo scambio sulla geolocalizzazione, “così tu sai sempre dove sono e io so sempre dove sei”. Poi magari non si vedono per cinque pomeriggi su sette, ma intanto sono sempre informati su dove sta l’altro, se è in casa, se è uscito, e nel caso dove è andato e a che ora torna. Può capitare di sentirli discutere (anzi no, non capita, perché tendenzialmente non discutono, ma si scrivono, si mandano dei vocali o usano la messaggistica istantanea) sul tema “ti levo la geolocalizzazione” o “perché hai levato la geolocalizzazione”.

E non lo fanno guardandosi negli occhi o camminando fianco a fianco, ma ognuno dalla sua postazione, tra un libro e un videogioco, in quelle camere che stanno diventando sempre più inaccessibili non solo ai genitori, ma anche ai loro stessi coetanei. Un’altra forma di controllo è rappresentata dalla famosa spunta blu di Whatsapp: “perché l’hai levata?”, “se la levi tu la levo anche io”, “la rimettiamo nello stesso preciso istante? Prima io o prima tu?”.

In genere scelgono l’opzione “senza spunta blu”, così che il genitore non sappia mai se il messaggio è stato letto o no (ma per lo più non ce l’hanno col genitore, ultimo dei loro pensieri, ma con l’amico insistente o con l’amica gelosa). Poi c’è lo scambio di profilo Instagram, dove come prova di solidità di una relazione - o meglio di esclusività - si acconsente reciprocamente alla condivisione delle password, “così io posso vedere cosa posti e tu puoi vedere cosa posto”.

Non è semplicemente come scambiarsi un paio di chiavi del motorino o farne più copie: significa ingaggiare una relazione tossica a colpi di “come mai hai postato quella cosa senza dirmelo?”, “potresti avvertirmi prima di postare una cosa così magari ti dico se mi piace?”.

Controlli su controlli su controlli, possibilmente incrociati con amiche o amici terzi, e una possibilità elevatissima di corto circuiti, offese involontarie, pasticci di ogni sorta. Quando poi ci si lascia è peggio che trovarsi di fronte alla divisione di un’eredità: c’è quello costretto a cambiare profilo per evitare intrusioni, c’è la creazione di miriadi di finti profili per accerchiare i fuggitivi, e tutta una serie di pratiche - gosthing, phishing, spoofing - che hanno come denominatori comuni l’inseguimento (o la fuga) da remoto, e l’assenza totale di una partecipazione del corpo: ma non era quello l’oggetto dell’amore?

Ora, al di là delle possibili riflessioni sull’importanza di non perdere la dimensione della corporeità, che come sappiamo investe anche le relazioni fra adulti, la questione di un’educazione digitale si impone come momento essenziale nel disegno di una più comprensiva educazione all’affettività. Per questo ci vogliono persone che sappiano parlare il linguaggio dei ragazzi e conoscano le dinamiche delle loro relazioni, consapevoli che sui social gli adolescenti si nutrono di stereotipi e pregiudizi molto più di quanto si possa immaginare (un breve tour su TikTok è sufficiente a misurare lo scarto tra la sofisticazione raggiunta dagli algoritmi e la spaventosa arretratezza dei contenuti).

Si possono fare mille discorsi a tavola sull’importanza di rispettare gli altri, di non offendere, su quanto siano brutti il razzismo, il bullismo, le violenze e tutti i tipi di abusi, ma se poi il risultato è quello di averli fatti assistere a una messa in latino che cosa ci si può aspettare? Le modalità di comunicazione in remoto hanno reso quelle in presenza tragicamente vetuste, e in questo scuola e famiglia condividono la stessa sorte.

Se il piano di educazione all’affettività proposto dal ministro Valditara non prenderà di petto la questione dei linguaggi e la formazione di un personale attrezzato per una battaglia così diversa dalle precedenti, la disfatta è praticamente assicurata. Difficile immaginare che una classe di sedicenni si appassioni a un’ora di lezione sul tema del consenso. Ma magari se uno domanda loro “trovi giusto che qualcuno voglia avere la password del tuo profilo senza darti la sua?” è facile che siano più reattivi. Certo, poi non bisogna sorprendersi del fatto che il sermone sul consenso sia stato inascoltato, né spaventarsi delle risposte.