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di Ennio Amodio*

Il Dubbio, 12 gennaio 2024

Non è certo sbagliato parlare di “sindrome napoleonica”. Dopo il lancio del premierato come nuova forma di governo, granitica per l’investitura popolare che scardina l’attuale impianto costituzionale dei rapporti tra Parlamento ed esecutivo, dal pensatoio del partito fraterno e tricolore spunta fuori un’altra invasione del terreno costituzionale che mira a rimodellare la fisionomia del nostro processo penale. Si vorrebbe inserire una norma là dove si riconoscono le garanzie dell’imputato, per collocare su quello stesso piano la tutela delle vittime del reato. Si annuncia dunque l’avvio di una stagione in cui la destra ambisce a rifondare il nostro ordinamento giuridico piuttosto che a riformarlo. Il proposito è quello di creare un nucleo di disposizioni a vocazione rigenerativa e a lunga gittata per dimostrare ora e ai posteri che la nostra Costituzione è un palazzo di prestigiosa architettura in cui abitano non solo i principi di una democrazia antifascista, ma anche nuovi fermenti culturali scoperti dalla ideologia della destra.

Ciò che si ha di mira è dare l’idea di una svolta epocale in concomitanza con l’affermarsi di un nuovo regime, come è dimostrato, tra i tanti esempi offerti dalla storia, dalla legislazione napoleonica. Ad un primo sguardo, però, la proposta di legge costituzionale che investe la giustizia penale sembra di intonazione minimalista. Si vuole infatti inserire tra i principi che regolano la giurisdizione una disposizione scarna, così concepita: “La Repubblica tutela le vittime di reato e le persone danneggiate dal reato”. Ma l’apparente semplicità nasconde la volontà di aprire una finestra che illumina una realtà di notevole portata. L’intento infatti va ben al di là del solo scopo, già di per sé tutt’altro che irrilevante, di mettere l’imputato e la vittima del reato su un piano paritetico. Il vero obiettivo è quello di ridimensionare il garantismo insito nel giusto processo e in tutte le norme costituzionali sulla giustizia penale, per far intendere che la protezione delle persone offese da condotte criminose deve fungere da barriera contro l’estensione delle garanzie dell’imputato. A ben vedere, insomma, la proposta degli ideologici della destra vale di più per quel che non dice nel testo da inserire in Costituzione, facendo capire implicitamente che “è finita la pacchia” - per usare il gergo tanto caro ai giustizialisti - essendo giunta l’ora di smettere di coccolare gli imputati - delinquenti e di trattarli con i guanti di velluto nella quotidianità dell’esperienza giudiziaria.

Che sia proprio questo il significato dell’altarino che dovrebbe ospitare la tutela delle vittime in Costituzione, è confermato dalla normativa del codice vigente in cui si prevedono tre diversi canali processuali attivabili da chi ha subìto le conseguenze del crimine: la costituzione di parte civile con la quale il danneggiato chiede il risarcimento al giudice penale, secondo uno schema recepito fin dall’Ottocento dal sistema francese; l’intervento adesivo rispetto all’azione del pubblico ministero, con il supporto di prove e memorie, che riecheggia un modello tedesco; la giustizi riparativa, ereditata dal processo angloamericano che si colloca, fuori dal giudizio penale con la ricerca di soluzioni soddisfacenti per la vittima.

Non c’è nessun altro Paese che, come l’Italia, sappia offrire così tanti ed efficaci rimedi alle persone offese dal reato. Elevare la loro tutela al livello costituzionale non può quindi promuovere ulteriori passi in avanti. Da qui la conferma che la proposta di legge costituzionale non è un incentivo, ma un freno, in un’altra direzione, cioè nei confronti del garantismo a favore dell’imputato.

L’esperienza storica attesta, del resto, che già nel passato la bandiera dei diritti delle vittime del reato è stata impugnata per contrastare le ideologie giuridiche propense a rivendicare nel modo più pieno il rafforzamento delle garanzie processuali dell’imputato. Negli anni a cavallo tra Otto e Novecento, la Scuola positiva di diritto penale di Ferri e Garofolo si è schierata a favore delle persone offese dal reato indicando espressamente la necessità di contenere la spinta a privilegiare il garantismo sostenuto dalla politica dello Stato liberale attenta a prevenire e sanzionare gli abusi ricorrenti nella pratica giudiziaria in danno dell’imputato. I risultati della battaglia dei positivisti contra reum sono stati recepiti in parte anche dal codice Rocco che guardava ovviamente con favore il ripudio della ideologia liberale considerata foriera di un ingiustificato lassismo nei confronti degli imputati.

La proposta di legge costituzionale di oggi risulta quindi viziata in radice da una visuale antigarantista, ancor più inaccettabile nel sistema vigente di stampo accusatorio in cui appare intollerabile puntare sulla presenza nel processo di soggetti che si aggiungono alla azione del pubblico ministero. La vittima del reato non è una parte nella vicenda giudiziaria perché è la pubblica accusa che, come diceva Montesquieu, veglia sulla legalità affinché i cittadini dormano sogni tranquilli. Certo, chi subisce il trauma delle condotte criminose deve poter dare alla giustizia tutto il suo contributo affinché sia punito il colpevole. Ma il rancore e il desiderio di vendetta delle persone offese non possono essere incanalati nel processo penale che, come insegna l’esperienza del diritto moderno, deve essere in concreto giusto anche nel saper espungere dalla pena applicata le spinte viscerali verso misure sanzionatorie esemplari o irragionevoli.

*Giurista