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di Oliviero Mazza*

Il Dubbio, 19 agosto 2023

Il diritto di difesa sarebbe indebolito e la norma si porrebbe al di fuori della cornice costituzionale: si rischia di lasciare i cittadini a tempo indeterminato sotto la spada di Damocle dell’iscrizione della notizia di reato. La proposta di riforma della prescrizione preannunciata dal Ministro Nordio risponde all’esigenza, generalmente condivisa, di riordinare una materia che vede tutt’ora applicabili diacronicamente ben quattro diversi regimi, a seconda del tempus commissi delicti: pre-Cirielli, Cirielli, Orlando, Bonafede con il correttivo Cartabia. Se tutti sono più o meno d’accordo sulla necessità di ricondurre a razionalità l’istituto, quando si devono delineare le linee di intervento le opinioni divergono, anche profondamente.

Il contrasto nasce dalla mancata comprensione del fondamento costituzionale e razionale della prescrizione, come dimostra la proposta di fissare il dies a quo all’inizio delle indagini. Ciò significa non considerare che la prescrizione comprende in sé due orologi ben distinti, sebbene inscindibilmente connessi: quello che misura il tempo della scoperta del reato e quello che misura il tempo dell’accertamento giudiziale. Non si può obliterare questa duplice natura, sarebbe un gravissimo errore di impostazione trascurare, come sembra fare la proposta Nordio, il tempo della scoperta del reato, così consegnando al pubblico ministero una piena discrezionalità cronologica nel dare avvio al procedimento. Il rischio concreto è quello di lasciare i cittadini a tempo indeterminato sotto la spada di Damocle dell’iscrizione della notizia di reato. Un vero e proprio assurdo giuridico, certamente in contrasto con i valori costituzionali che, invece, la prescrizione intende tutelare.

Se si vuole adottare finalmente una disciplina costituzionalmente orientata occorre partire dal presupposto che il tempo della scoperta del reato è funzionale all’effettività del giusto processo. Bisogna avere ben chiaro che l’imputato non ha solo il diritto soggettivo a un processo di durata ragionevole, ma prima ancora deve essergli garantito il diritto a che il processo prenda avvio in un tempo ragionevole dalla presunta commissione del fatto. Un accertamento compiuto tardivamente sconta l’impossibilità del pieno esercizio del diritto di difesa e si pone al di fuori della cornice costituzionale.

Qualora si registrasse un eccessivo scollamento temporale fra il reato e il processo, tutto il castello delle garanzie processuali, compresa la concentrazione dell’accertamento, finirebbe per crollare, così come sarebbe vanificata la finalità costituzionalmente imposta alla pena. Non è un caso, dunque, se, anche nel sistema costituzionale statunitense, il right to a speedy trial viene concepito, anzitutto, come il diritto alla rapida apertura del processo, tutelato dalla procedura di dismissal in caso di preaccusation delay.

Tracciare il legame inscindibile fra prescrizione e valori costituzionalmente protetti consente anche di svelare il paradosso per cui la durata ragionevole viene normalmente invocata, soprattutto nella prospettiva efficientista, quale controlimite per i diritti del giusto processo. Nel sistema dei diritti costituzionali la ragionevole durata è, invece, il predicato del giusto processo, ne diviene un requisito strutturale che segna il punto di equilibrio democratico nei rapporti fra autorità e cittadino: decorso un certo lasso di tempo o lo Stato è in grado di accertare compiutamente la responsabilità, vincendo la presunzione d’innocenza nel contesto di un giusto processo, oppure l’accusato deve essere per sempre liberato dal giogo della pretesa punitiva che fino a quel momento ne ha condizionato l’esistenza.

La prescrizione ha costituito, nei fatti, la sanzione per la violazione del principio costituzionale di ragionevole durata del giusto processo. E come tutte le sanzioni ha operato sia sul piano della prevenzione speciale, bloccando il singolo processo di durata irragionevole, sia sul piano della prevenzione generale, come deterrente per l’eccessiva durata dei processi, come stimolo potentissimo al contenimento dei tempi delle attività processuali.

L’oblio dell’interesse punitivo rimane una vera e propria fictio iuris in una società vendicativa poco incline a dimenticare e non fornisce una solida giustificazione politica per l’esistenza stessa della prescrizione. Al contrario, la prospettiva schiettamente processuale è quella che garantisce l’unico vero caposaldo rinvenibile nella Carta fondamentale, il diritto al giusto processo di durata ragionevole anche quale garanzia strumentale rispetto ai diritti di difesa, alla presunzione d’innocenza e alla finalità rieducativa della pena, garanzia strumentale che presuppone ulteriormente il diritto a che l’accertamento abbia inizio in un tempo ragionevole dal reato. I due orologi sono uno il presupposto dell’altro. E la prospettiva processuale non toglie nemmeno un grammo al peso sostanziale di un istituto che comunque produce i suoi effetti sul piano della punibilità in concreto, ossia del diritto penale. Queste sono solo le premesse per ragionare poi sulla compatibilità europea di termini superiori agli 8 anni e mezzo o sulla latente illegittimità costituzionale dei reati imprescrittibili.

*Giurista