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di Stefano Folli e Luciano Violante

linkiesta.it, 14 marzo 2022

Dopo Mani Pulite e le stragi di Palermo la magistratura ha conquistato uno spazio inusitato che ha rotto l’equilibrio con gli altri poteri, portando alla crisi dei partiti e a un sistema giudiziario che barcolla. La nave va rimessa sulla giusta rotta, come ricordano Luciano Violante e Stefano Folli in “Senza vendette” (Il Mulino), di cui pubblichiamo la postfazione.

Questa conversazione nasce dall’esigenza di una riflessione, a trent’anni dal drammatico 1992, sulle relazioni tra giustizia, politica e cittadini. Sono uno snodo essenziale della democrazia perché la politica assicura diritti, doveri e benessere alla comunità, mentre la giustizia assicura gli stessi benefici ai singoli quando appaiano messi in pericolo. Per questa ragione lo stato di salute di una democrazia dipende in buona misura dalla politica, dalla giustizia e dalle relazioni tra l’una e l’altra.

Nel 1992 la magistratura si avviava ad una stagione di potere assoluto, sciolto da regole, sostenuta dal consenso dei cittadini e confortata dall’aureola di martirio che nasceva dalle stragi di Palermo. La politica, travolta dalle inchieste, incapace di ricostruire un ordine, preparava inconsapevolmente il proprio suicidio, alla spasmodica ricerca della impunità dei singoli, incurante del vuoto che si stava creando sotto i suoi piedi. In quel vuoto avrebbero prevalso la “disgregazione e l’avventura”, secondo l’amara previsione di Craxi nel discorso a Montecitorio del 3 luglio 1992.

Nei trent’anni che sono seguiti, magistratura e politica hanno progressivamente perso la consapevolezza del proprio ruolo. Il degrado è stato progressivo. Tanto per la magistratura quanto per la politica è diventata preponderante la dimensione del potere rispetto a quella del servizio. Il prezzo è stato pagato dai cittadini.

La magistratura attraversa la più grave crisi di credibilità della sua storia. La politica non appare capace di riprendere nelle proprie mani la storia del paese. Anche oggi c’è un vuoto; ma oggi, a differenza di ieri, su quel vuoto c’è un ponte che vede da un lato Sergio Mattarella e dall’altro Mario Draghi. È una fortuna, ma la prudenza consiglia di non affacciarsi dal ponte per evitare che l’abisso ci chiami. L’intreccio tra regole confuse, prassi arbitrarie, apatie professionali e insipienze politiche ha generato grovigli velenosi e mai sazi.

Ne sono testimoni due eventi del gennaio 2022, il cui significato va ben oltre quel termine. La rielezione, non richiesta e non voluta, del presidente Mattarella è stata determinata dalla incapacità di trovare l’intesa su un’altra personalità politica adeguata a quell’impegno. Si è penosamente reiterata la confessione d’impotenza del 2013, quando i partiti pregarono Giorgio Napolitano di accettare la rielezione.

Nell’altro campo, la sentenza con la quale il Consiglio di Stato, alla vigilia dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, ha azzerato i vertici della Cassazione costituisce il capitolo più grave di una competizione per il primato tra le diverse magistrature, che si protrae da tempo. La decisione del Csm di riconfermare immediatamente quei vertici, alla presenza del Capo dello Stato, ha risolto una pericolosa impasse, ma non ha curato la malattia.

Se si aggiungono le accuse reciproche, le dichiarazioni avventate e i comportamenti disdicevoli di magistrati in servizio, i libelli scandalistici scritti da chi ha ricoperto delicate funzioni giurisdizionali, risulta evidente che l’intero sistema di giustizia è privo di guida. L’arbitrio di molte decisioni e la scomparsa dei doveri come parametro delle relazioni professionali provocano sfiducia. L’imprevedibilità e la casualità delle decisioni mettono in crisi il principio di legalità.

Parallelamente, e paradossalmente, crescono le domande di giustizia, quelle rancorose, in materia di reati veri o presunti delle classi dirigenti e di quelle civili, in materia di diritti individuali, fine vita e diritti Lgbt.

Queste domande, non trovando una risposta soddisfacente da parte del mondo politico, si rivolgono al giudice, che, per rispondere positivamente, a volte in assenza dei fatti e a volte in assenza della legge, ricorre ad interpretazioni creative. Ne deriva che la sua legittimazione non si fonda più sulla legge, ma, con un pericoloso stravolgimento, sulla capacità di rispondere alle istanze dei cittadini, che è invece la legittimazione propria della politica.

Tutte le magistrature hanno bisogno, ciascuna in misura propria, di un nuovo sistema di governo che ne garantisca l’efficienza, assicuri il rispetto dei confini costituzionali, salvaguardi l’indipendenza di tutti, fissi le responsabilità di ciascuno. Le preoccupazioni per l’economia sono ragionevolmente al centro dell’attenzione del Parlamento e del governo, ma non sarebbe saggio sottovalutare le interdipendenze tra un’affidabile macchina giudiziaria, il progresso economico e il benessere sociale.

La ridotta affidabilità della giustizia è un freno per lo sviluppo economico. Gli investitori stranieri e gli imprenditori italiani sono preoccupati dal “rischio penale”, dipendente dalla incertezza delle leggi, dalla casualità delle inchieste, dal mancato rispetto della riservatezza delle indagini. Ieri potevano essere sufficienti rammendi di una trama ferita. Oggi, rischia di scomparire la trama. Non è più tempo di maquillage; occorrono interventi profondi anche di carattere costituzionale.

La politica non può rifugiarsi nei referendum o nella contestazione dei referendum. Le inesorabili leggi che la governano ci dicono che, se si rinviasse ancora, diventerebbe inevitabile un ordine totalmente autoritario, fondato sull’esercizio del nudo potere. In gioco a quel punto non sarebbe la giustizia, ma la stessa democrazia. Le prudenze, sempre necessarie quando si toccano gli equilibri costituzionali, non possono giustificare nuovi rinvii.

La politica deve considerare quello della giustizia come uno dei terreni sul quale cominciare a ricostruire la propria sovranità, il proprio senso della storia. Le magistrature nelle scelte e nei comportamenti, dentro e fuori gli uffici, devono rispettare i principi costituzionali dell’onore e della disciplina, che hanno fondamento non in nuove leggi, ma nella tradizionale educazione civile. Nella conversazione con Stefano Folli sono avanzate alcune proposte specifiche. Autorevoli studiosi ne hanno avanzate altre, egualmente valide. Agire presto è una responsabilità della politica, senza vendette, ma con determinazione. Altrimenti l’abisso ci chiamerà.