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di Antonio Esposito

Il Fatto Quotidiano, 2 settembre 2023

Circa 500 magistrati a riposo hanno sottoscritto un appello, indirizzato al ministro della Giustizia Carlo Nordio, contro la riforma della separazione delle carriere, denunziando come essa “stravolgerebbe l’attuale architettura costituzionale che prevede non solo l’appartenenza di giudici e pm a un unico ordine giudiziario, indipendente da ogni altro potere, ma anche un unico Csm”. I firmatari richiamano l’”essenziale” principio della “comune cultura della giurisdizione” ed esprimono il timore che lo scopo della riforma sia quello di sottoporre il pm al controllo dell’esecutivo.

L’appello ha suscitato le vibrate reazioni di politici appartenenti a partiti di governo, tra i quali si è distinto more solito l’onorevole Maurizio Gasparri (FI) che si è spinto fino a parlare di “un pericoloso atto di grave intimidazione nei confronti del Parlamento”. A sua volta, l’on. Tommaso Calderone (FI), firmatario della proposta sulla separazione, l’ha definita “una riforma fondamentale per avere finalmente una giustizia efficiente, giusta e trasparente”.

Tralasciando le farneticanti accuse di Gasparri e premesso che la separazione delle carriere non è per nulla idonea a rendere la Giustizia più “efficiente e giusta” (ben altre sono le riforme necessarie a tal fine), va rilevato che non ha più senso richiamare nell’appello “la comune cultura della giurisdizione”, per il semplice motivo che la separazione, sia pure delle funzioni, tra magistrati inquirenti e giudicanti, esiste già da tempo: infatti oltre il 90% dei magistrati che assumono le funzioni di pm continuano, nel corso della carriera, a esercitare le medesime funzioni, sia perché l’incarico di pm è più appetibile e prestigioso, sia per le restrizioni imposte al cambio di funzioni dal decreto legislativo del 2006 e dalla legge 111/2007 (mai, in realtà, veramente osteggiata dall’Anm). Tant’è che nel 2021 i cambiamenti di funzioni sono stati solo 21 su 9mila magistrati. Ciò ha portato, nel corso degli anni, di fatto, alla separazione delle funzioni, all’abbandono della cultura della giurisdizione e a un progressivo appiattimento delle funzioni di pm su logiche prossime a quelle di polizia. Tale situazione è destinata ad aggravarsi con la sciagurata “riforma” Cartabia del 2022, che ha irresponsabilmente limitato i passaggi da una funzione all’altra a uno solo nel corso della carriera (e nei primi 10 anni). E ha già spianato alla politica la strada, ormai irreversibile, per compiere l’ulteriore passo, quello decisivo: cioè la separazione delle carriere.

Ciò che nell’appello non viene evidenziato è che, nelle pieghe del disegno di legge Nordio (quasi di soppiatto), si rinviene il vero pericolo per l’indipendenza della magistratura (sia inquirente che giudicante): la previsione di mutare la composizione del Csm aumentando il numero degli eletti dal Parlamento, per renderlo eguale a quello dei togati (oggi i “laici” sono 1/3 e e i magistrati 2/3). Questa modifica aumenterà a dismisura il tasso di politicizzazione del Csm, se è vero che i membri laici vengono scelti non tanto per la loro competenza e autorevolezza delle rispettive professioni, quanto essenzialmente (se non esclusivamente) per la loro appartenenza (e fedeltà) al partito che li propone (il più delle volte tra i parlamentari, addirittura tra i sottosegretari), di cui essi sono espressione e di cui seguono le indicazioni.

La modifica della composizione del Csm - di cui non si avverte alcuna necessità - è quindi finalizzata a un evidente controllo politico della magistratura e del pm in particolare, tant’è che il disegno di legge prevede anche la modifica dell’articolo 112 della Costituzione, stabilendo che il pm ha l’obbligo di esercitare l’azione penale “nei casi e nei modi previsti dalla legge”. Orbene, affidare al Parlamento “i casi e le modalità” di esercizio dell’azione penale significa rimettere alla maggioranza politica di turno la scelta dei reati da perseguire e da tralasciare, il che comporta pericolose scelte di “opportunità” sicuramente estranee all’attuale dettato costituzionale, secondo cui l’obbligatorietà dell’azione penale concorre a garantire, da un lato, l’indipendenza del pm nell’esercizio della propria funzione e, dall’altro, l’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge penale. Come più volte ha ribadito la Consulta.

In conclusione, è anche e soprattutto mediante l’aumento del numero dei componenti laici e l’introduzione della discrezionalità dell’azione penale, che si gettano le basi per l’assoggettamento dell’ordine giudiziario al potere politico.