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di Tiziana Maiolo

Il Dubbio, 1 novembre 2023

La vicenda degli arresti chiesti dal pm e non concessi dal gip a Milano ha riacceso una polemica annosa. Dalla Roma di “Mafia capitale” alla Milano del “Consorzio” che avrebbe unificato le cosche storiche di cosa nostra, ‘ndrangheta e camorra. Visioni di pubblici ministeri e direzioni antimafia che finiscono con il vedere metaforiche lupare ovunque, con un radar così ossessivamente puntato in una sola e univoca direzione, tanto da finire sconfessati dalle ordinanze e sentenze dei giudici. È capitato a Roma, quando la procura diretta da Giuseppe Pignatone nel 2014 ha lanciato una bomba che per potenza mediatica ha raggiunto i luoghi più lontani del mondo e ha battezzato la capitale d’Italia come centro mafioso. La cosca è lì, nel cuore dell’Italia, dissero in coro i capitani coraggiosi che si chiamavano Michele Prestipino, procuratore aggiunto, e i sostituti Paolo Ielo, Luca Tescaroli e Giuseppe Cascini, che affiancavano il dottor Pignatone nella fatica delle indagini. Dopo sei anni, e dopo che i giudici dell’appello avevano sconfessato, con un vero appiattimento sula teoria dell’accusa, la lungimiranza dei giudici di primo grado, la cassazione disse parole chiare. Prima di tutto evidenziando quel che dovrebbe essere lapalissiano, e cioè che l’interpretazione del reato la dà la legge, non la fantasia del magistrato, singolo o collettivo che sia. Il “Mondo di mezzo”, stabilì il giudice di legittimità il 22 ottobre del 2019, non era mafia, ma semplice corruzione. C’erano i reati contro la pubblica amministrazione e c’erano i responsabili che li avevano commessi. Ma mancavano i presupposti previsti dall’articolo 416-bis del codice penale, il metodo mafioso nei comportamenti dei soggetti coinvolti e anche quella “fama” conquistata dall’associazione criminale che produce l’assoggettamento omertoso di una porzione di società. Lucciole scambiate per lanterne, che avevano danneggiato nel mondo la reputazione dell’Italia e della sua capitale, e scaricato come merce avariata e pericolosa nelle carceri speciali i due principali responsabili Salvatore Buzzi e Massimo Carminati, mentre fiorivano successi editoriali e filmografici di coloro che a quell’ipotesi fantasiosa e infondata avevano creduto, o finto di credere.

Quasi dieci anni dopo il problema dell’interpretazione dell’articolo 416-bis del codice penale si ripropone a Milano, e non c’è bisogno di arrivare alla cassazione. Perché un giudice, quello delle indagini preliminari, forse anche sulla scia di quel fatto così grave di allora, ha dato un primo stop alle richieste della procura diretta da Marcello Viola, avanzate dal capo della Dda Alessandra Dolci con l’ausilio della pm Alessandra Cerreti. Il fatto nuovo non consiste tanto nel fatto che il gip Tommaso Perna abbia accolto solo 11 delle 140 richieste di custodia cautelare (per quanto l’enorme differenza nel numero sia significativa), ma nell’esclusione tassativa dell’esistenza di una sorta di Supermafia che la procura ha creduto di aver individuato a Milano e al nord. Un “Consorzio” nuovo di zecca come associazione, frutto della fusione tra cosa nostra, ‘ndrangheta e camorra di cui gli stessi procuratori delle Dda delle tre Regioni degli insediamenti storici di queste cosche, Sicilia, Calabria e Campania, avevano mai sospettato l’esistenza. Siamo alle luccioline per lanternone?

Se il gip Tommaso Perna ha studiato anche, cosa di cui è stato accusato dai giornali che si nutrono delle veline dei pm, qualche scritto dell’avvocato Salvatore Del Giudice, ha fatto benissimo, perché sono molto approfonditi. Piuttosto, è singolare il fatto che quegli stessi quotidiani abbiano fatto notare come la figura dell’avvocato, nel processo, sia la parte avversa del pm, dando per scontato che agli scritti di questi ultimi dovrebbe se mai ispirarsi il giudice. Ma resta il fatto che la qualificazione del reato di associazione mafiosa non possa essere accertata se non secondo criteri “legali”. E che perché quello specifico reato esista occorre che l’associazione abbia effettivamente e in concreto in un determinato territorio mostrato la propria capacità di intimidazione. E bisogna accertare anche che di questa capacità la popolazione abbia una tale certezza da sentirsene intimorita e condizionata fino all’assoggettazione “spontanea” alla violenza del gruppo.

Ora, nelle cinquemila pagine stese dalla procura di Milano, che ha avanzato le richieste dopo indagini durate quattro anni, il gip Perna non ha ravvisato gli elementi fondativi che mostrino come la gran parte degli indagati, alcuni dei quali apparteneva o era appartenuto nel passato a qualche associazione di tipo mafioso, abbia avuto la forza di costruire il “Consorzio” unificante delle tre mafie storiche come nuovo soggetto criminale. E che abbiano commesso reati avvalendosi di quella forza intimidatrice che ha posto come condizione per il 416-bis il legislatore quando lo ha introdotto nel codice penale, in seguito agli omicidi di Pio La Torre e del generale Dalla Chiesa.

Situazione in fieri a Milano comunque, poiché la procura ha presentato ricorso al tribunale del riesame. Ma in un’altra regione italiana, la Calabria, potrebbe presentarsi un caso di studio di qualche interesse. La Dda di Catanzaro ha chiuso nei giorni scorsi un’inchiesta su 82 indagati del “clan degli zingari”, qualificando quel gruppo come associazione mafiosa. Non era mai successo che una procura della repubblica indagasse la comunità rom oltre che per reati specifici, in questo capo narcotraffico, estorsioni e detenzione di armi, anche per il reato previsto all’articolo 416-bis del codice penale. Uniformità in questo caso tra le parole pronunciate nella conferenza stampa dell’aprile scorso, in cui al fianco del procuratore Nicola Gratteri sedeva anche il Direttore centrale anticrimine della polizia Francesco Messina, con l’ordinanza del gip Filippo Aragona.

Il cui contenuto però lascia qualche dubbio, che potrebbe trovare cittadinanza nei prossimi gradi di giudizio dell’eventuale processo. Perché il gip usa un particolare linguaggio nello spiegare come questo gruppo di nomadi a partire dal 2017 e dopo aver svolto il ruolo di manovalanza nelle associazioni mafiose dedite in particolare al narcotraffico, si sia reso autonomo.

In questa nuova fase, scrive il gip Aragona, “le cosche mafiose storiche operanti a Catanzaro, Cutro e Isola di Capo Rizzuto hanno conferito ai capi del clan degli zingari doti di ‘ndrangheta…Tale apertura ha determinato le condizioni perché gli zingari progressivamente acquisissero l’expertise necessaria per costituire un gruppo indipendente operante nel settore degli stupefacenti, armi estorsioni e reati contro il patrimonio, avvalendosi della forza di intimidazione mafiosa”. Doti di ‘ndrangheta? Expertise? Saranno sufficienti perché altri giudici che saranno chiamati a decidere, se ci sarà un rinvio a giudizio, confermino l’esistenza di una nuova mafia, quella degli zingari? E solo in Calabria?