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di Marco Belpoliti

La Repubblica, 2 febbraio 2023

Perché la scelta del digiuno a oltranza in carcere è una sfida al sistema penale che va oltre le idee della destra e della sinistra. Nella prima pagina di “Sorvegliare e punire” Michel Foucault racconta lo squartamento mediante cavalli da tiro di Damiens, un parricida, nel marzo del 1757. L’epoca dei Lumi è già iniziata ma nella città di Parigi il condannato a morte, dopo aver fatto pubblica confessione, viene smembrato sulla piazza. Nell’arco di qualche decina d’anni il corpo suppliziato, amputato, simbolicamente marchiato sul viso o sulla spalla, sembra scomparire dalle pene capitali dei paesi europei. Come argomenta il filosofo francese nel suo libro s’interviene sui corpi dei condannati per privarli tuttalpiù del loro diritto alla libertà, e prima di tutto per farli lavorare, assoggettarli, perché i corpi stessi vanno purificati.

La sofferenza fisica, scrive Foucault, e il dolore del corpo non sono più gli elementi costitutivi della pena. Il problema che Alfredo Cospito pone con il suo digiuno condotto sino al punto irreversibile è tuttavia ancora una volta quello del corpo, non però del corpo castigato solo con pene fisiche - cosa che per altro accade ancora in molti luoghi del mondo e persino nel nostro sistema carcerario, a partire dalla dimensione angusta delle celle in cui i condannati sono rinchiusi.

Cospito con la sua fede anarchica, con la tenacia e la deliberata volontà di sfidare la stessa pena di morte, si lascia morire attraverso il digiuno, un’arma impropria che nei decenni passati hanno utilizzato i non violenti come Gandhi, Pannella e i resistenti di tutto il mondo. Il corpo è l’unica realtà che noi conosciamo, a cui ci riferiamo con accenti e parole che tuttavia un tempo venivano dedicate a quella che era considerata la vera sostanza dell’essere umano: l’anima. Un vero e proprio rovesciamento.

Nella cultura contemporanea il corpo è al centro di un culto variegato e imprescindibile, ma la realtà cui mira il narcisismo diffuso nella società attuale non è più il corpo propriamente detto, bensì la realtà un tempo chiamata “anima”. Per questo ha perfettamente Foucault quando ci ricorda che i giudici non giudicano più i reati ma “l’anima dei criminali”.

Sfidando il sistema penale, che cerca di guarire i delinquenti inveterati attraverso un sistema di discipline di rieducazione, Cospito getta il proprio corpo nella lotta, con un gesto anacronistico e tuttavia efficace. La sua sfida condotta attraverso il corpo non è più quella contro un sistema penale ingiusto, scorretto e vessatorio, ma contro l’idea stessa di un ordine sociale che vuole redimere l’anima del condannato. Cospito non vuole abiurare le proprie convinzioni politiche, ma inverarle utilizzando il proprio corpo, per questo sfida un intero universo simbolico che non ha ancora compreso che l’anima è la vera prigione del corpo.

La cultura politica della destra vede in lui l’ennesima reincarnazione del “terrorista”, mentre quella della sinistra tradizionale vuole salvare il corpo dell’anarchico dalla sua dissoluzione, e quindi dalla morte, perché ritiene, per altro giustamente, che il corpo sia un valore insopprimibile e da rispettare. Ma col suo digiuno fino alle estreme conseguenze Cospito sfida entrambe le convinzioni mescolando le carte e sostenendo il diritto inoppugnabile di morire per le proprie idee, un evento a cui non siamo più abituati, se non in quella dimensione estrema e distruttrice che è la guerra.