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di Piercamillo Davigo

Il Fatto Quotidiano, 11 febbraio 2023

La Corte costituzionale ha ritenuto legittimo il 41-bis sia per le limitazioni necessarie a impedire i contatti con il contesto criminale sia per il divieto di ricevere dall’esterno libri e riviste. Nella vicenda relativa ad Alfredo Cospito, detenuto che afferma di effettuare lo sciopero della fame (da oltre 100 giorni) per l’abolizione del regime penitenziario di cui all’art. 41-bis dell’Ordinamento penitenziario (legge 26 luglio 1975, n. 354), si sentono opinioni che non sembrano basate sulla conoscenza dei fatti e della norma.

Anzitutto più che uno sciopero della fame il detenuto sembra ricorrere a un’alimentazione selettiva, posto che la possibilità di sopravvivere senza assumere cibo ragionevolmente non può superare due mesi e mezzo. Nel marzo del 1981 Bobby Sands, a cui si aggiunsero altri suoi compagni dell’Ira (Irish Republic Army) detenuti nel carcere di Long Kesh (nei pressi di Belfast), iniziò uno sciopero della fame (vero) per ottenere lo status di prigioniero politico e morì al 66° giorno di digiuno. Il 16 gennaio 2023, Alfredo Cospito avrebbe detto che il suo sciopero della fame “è il più falso della storia”. Lo scrive il generale Mauro D’Amico, capo del Gom (Gruppo operativo mobile della Polizia penitenziaria), nella relazione al ministero della Giustizia. Cospito avrebbe anche raccontato di assumere una grande quantità di integratori e di stare fisicamente molto meglio, tanto da aver notato un grande miglioramento dell’asma cronica che lo affligge.

In secondo luogo, taluni sostengono che il regime di cui all’art. 41-bis sarebbe contrario alla Costituzione della Repubblica. L’articolo, nel primo comma prevede la facoltà, “in casi eccezionali di rivolta o di altre gravi situazioni di emergenza” per il ministro della Giustizia “di sospendere nell’istituto interessato o in parte di esso l’applicazione delle normali regole di trattamento dei detenuti e degli internati. La sospensione deve essere motivata dalla necessità di ripristinare l’ordine e la sicurezza e ha la durata strettamente necessaria al conseguimento del fine suddetto” e non ha alcuna attinenza con il caso in questione.

Il secondo comma stabilisce: “Quando ricorrano gravi motivi di ordine e di sicurezza pubblica, anche a richiesta del ministro dell’Interno, il ministro della Giustizia ha altresì la facoltà di sospendere, in tutto o in parte, nei confronti dei detenuti o internati per taluno dei delitti di cui al primo periodo del comma 1 dell’articolo 4-bis o comunque per un delitto che sia stato commesso avvalendosi delle condizioni o al fine di agevolare l’associazione di tipo mafioso, in relazione ai quali vi siano elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con un’associazione criminale, terroristica o eversiva, l’applicazione delle regole di trattamento e degli istituti previsti dalla presente legge che possano porsi in concreto contrasto con le esigenze di ordine e di sicurezza. La sospensione comporta le restrizioni necessarie per il soddisfacimento delle predette esigenze e per impedire i collegamenti con l’associazione di cui al periodo precedente. In caso di unificazione di pene concorrenti o di concorrenza di più titoli di custodia cautelare, la sospensione può essere disposta anche quando sia stata espiata la parte di pena o di misura cautelare relativa ai delitti indicati nell’articolo 4-bis” (dell’ordinamento penitenziario).

Altri commi poi aggiunti disciplinano il procedimento di applicazione e revoca di tale regime e le impugnazioni e specificano varie limitazioni. Non si tratta quindi di “carcere duro” ma di modalità necessarie “per impedire i collegamenti con l’associazione”. Queste modalità possono creare (e concretamente creano) disagio ai detenuti sottoposti a tale regime, peraltro giustificati da “gravi motivi di ordine e di sicurezza pubblica”.

La Corte costituzionale si è pronunciata numerose volte sulle limitazioni previste dalla norma, talvolta dichiarando l’incostituzionalità di alcuni aspetti (ad esempio censura della corrispondenza con i difensori, la limitazione dei colloqui visivi e telefonici con i difensori, il divieto di scambiare oggetti, nella parte in cui si applica anche ai detenuti inseriti nel medesimo gruppo di socialità, ritenuto non proporzionato, il divieto di cuocere cibi), ma ha ritenuto legittimi sia le limitazioni necessarie a impedire i contatti con il contesto criminale sia altri particolari aspetti, quali il divieto di ricevere dall’esterno libri e riviste e la partecipazione del dibattimento a distanza.

Ovviamente è possibile dissentire da queste decisioni e criticarle, ma affermare che il regime di cui all’art. 41-bis è incostituzionale senza argomentare su queste pronunzie della Corte costituzionale, fa pensare che tali affermazioni siano semplice manifestazione di ignoranza.

La questione centrale è se, in uno Stato di diritto, anziché far valere le proprie ragioni nei modi previsti dalla Costituzione sia possibile esercitare pressioni sul legislatore (posto che nella specie Cospito non pone una questione relativa alla sua sottoposizione al regime speciale, ma chiede l’abrogazione di tale regime in generale).

A mio avviso la risposta non può che essere negativa e qui la questione potrebbe essere chiusa se non fosse per quanto accaduto alla Camera dei deputati, dove un parlamentare ha accusato altri parlamentari, fra cui l’On. Andrea Orlando (che, nell’esercizio delle facoltà loro riconosciute, avevano visitato Cospito) di non essere dalla parte dello Stato, ma dei mafiosi e terroristi disvelando (essendo la seduta pubblica) il contenuto di un colloquio di Cospito con altri detenuti. L’accusa appare ingenerosa e ingiustificata, ove si consideri che l’On. Andrea Orlando, quand’era ministro della Giustizia, non revocò il regime di cui all’art. 41-bis nei confronti di Bernardo Provenzano, ritenuto capo di Cosa Nostra, neppure quando questi era oramai in fin di vita (pur dando atto che si trattò di una decisione sofferta).

Si pone però un altro problema. Il ministro Nordio ha escluso che le notizie rivelate non fossero coperte da segreto di Stato (e su ciò non sembra sostenibile il contrario) ma non si è pronunciato sul fatto che fosse stato violato il segreto d’ufficio.

Per quanto è dato comprendere, il sottosegretario alla Giustizia, Andrea Delmastro Delle Vedove, con delega al Dap (Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria) ha avuto legittimamente conoscenza di tali notizie nell’esercizio e a causa di tali sue funzioni. Le avrebbe comunicate all’On. Giovanni Donzelli, vicepresidente del Copasir (Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica), anch’egli tenuto al segreto d’ufficio. Quest’ultimo le ha rese note alla Camera di appartenenza in seduta pubblica e non segreta. Della vicenda si occupa la Procura di Roma che, fra l’altro, dovrà accertare se (come si può ipotizzare) le conversazioni fossero state registrate con intercettazioni preventive, come tali segrete.