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di Edmondo Bruti Liberati

La Stampa, 8 marzo 2023

Il procuratore e il consulente Crisanti spiegano di voler dare “risposte ai parenti delle vittime”. Ma così finisce in secondo piano l’obiettivo di un’inchiesta penale: stabilire le responsabilità.

Epidemia Covid, verità, reati penali, dolore delle vittime e dei superstiti. “Reati penali”, ridondanza entrata nell’uso giornalistico, perché reato è già penale, ma utile a sottolineare specificità e limiti dell’intervento penale. Faciloneria, scorrettezze, inadeguatezze riprovevoli non sono di per sé “reati penali”. La “responsabilità penale è personale” (art. 27 Costituzione). La giustizia penale non interviene su “fenomeni”, su “eventi”, ma deve accertare specifici reati per i quali specifiche persone si provi siano responsabili.

Tutti comprendiamo la differenza tra responsabilità per un fatto che una persona ha “voluto” commettere (dolo) e, invece, la responsabilità per un fatto che “non è voluto”, ma si è verificato per “negligenza, imprudenza o imperizia ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti...” (art. 43 codice penale). Per una volta il linguaggio tecnico della legge è chiaro e comprensibile a chiunque. L’accertamento della responsabilità per colpa è uno dei problemi più delicati per la giustizia. Di fronte a una catastrofe tutti esigono la “verità”, ma se vogliamo che “sia fatta giustizia”, occorre confrontarsi con la questione della diligenza, prudenza, perizia, capacità professionale che era possibile esigere da quella persona, allora, in quella situazione specifica. Pensiamo alla colpa medica: talora la colpa è evidente, ma nella maggioranza dei casi l’accertamento è molto difficile e anche qui vale il principio che sintetizziamo nella formula della responsabilità “al di là di ogni ragionevole dubbio”. Per affermare la “colpa” occorre che la conseguenza di danno, che si è verificata, fosse, allora, prevedibile. Non solo: occorre anche che fosse, allora, possibile evitarla. Prevedibile alla luce delle conoscenze di quel momento ed evitabile alla luce dei mezzi in quel momento ritenuti idonei e concretamente disponibili. Non vi è spazio per il senno di poi.

Il Procuratore della Repubblica di Bergamo nel comunicato del 20 febbraio informa che il suo ufficio “ha concluso le indagini nei confronti di 17 persone che, a vario titolo, hanno gestito la risposta alla pandemia da Covid-19”, indagini che hanno “consentito innanzitutto di ricostruire i fatti così come si sono svolti a partire dal 5 gennaio 2020”; aggiunge giustamente che “l’avviso di conclusione delle indagini non è un atto d’accusa”. L’avviso, così ancora il comunicato della Procura, è stato adottato all’esito di un’attività che “ha comportato valutazioni delicate in tema di configurabilità dei reati ipotizzati, di competenza territoriale, di sussistenza del nesso di causalità ai fini dell’attribuzione delle singole responsabilità”. Non è un atto di accusa, ma non è un atto “neutro” perché conseguenza di una scelta alternativa rispetto all’archiviazione che il pubblico ministero è tenuto a richiedere al giudice “quando gli elementi acquisiti nel corso delle indagini preliminari non consentono di formulare una ragionevole previsione di condanna” (art.4 08 c.p.p.).

Sin da ora merita attenzione l’impostazione delle indagini, quale emerge dalle dichiarazioni rese dal Procuratore Antonio Chiappani. “Il materiale raccolto servirà non solo per le valutazioni di carattere giudiziario, ma anche scientifiche, epidemiologiche, di sanità pubblica, sociologiche amministrative” (Corriere della sera, 2 marzo); “Questa indagine presenta molte difficoltà tecniche ma il mio obiettivo è che la gente sappia quello che è successo” (La Stampa, 2 marzo); “Magari qualcuno sarà prosciolto, qualche posizione sarà archiviata o magari giudici riterranno che, sull’epidemia colposa non si debba procedere” (Repubblica, 3 marzo). Sembra svanire, o quanto meno essere posto in secondo piano, il solo obbiettivo dell’indagine penale: accertamento di “reati penali” e di responsabilità personali. Che “la gente sappia quel che è successo”, che “il materiale raccolto” possa servire, anche, per valutazioni non di carattere giudiziario, può essere una ricaduta oggettiva dell’indagine penale. Non conosciamo gli atti e vi è da augurarsi vivamente che, a dispetto delle dichiarazioni sulla stampa del Procuratore, l’attività di indagine non abbia seguito quella impostazione e sia stata orientata all’unico “obbiettivo” che codice e Costituzione assegnano alla giustizia penale.

In questo quadro si aggiungono le dichiarazioni del prof. Andrea Crisanti. Già il fatto che il redattore della consulenza si senta in dovere di “spiegarla” alla stampa è del tutto inconsueto, ancor più il contenuto. Chi abbia letto qualche consulenza o perizia (atti che per definizione vengono disposti in situazioni complesse) conosce la prudenza degli esperti che spesso adottano la formula che alcune conclusioni sono “incompatibili” con i fatti accertati, altre sono “compatibili”, ma nessuno si spinge ad affermare la “sua Verità”. Eppure il prof. Crisanti non si ritrae: “Ho tentato di restituire agli italiani la verità sui processi decisionali” (Corriere della sera, 3 marzo); “Abbiamo utilizzato... modelli matematici altamente predittivi che ci hanno permesso di trarre conclusioni” (Nazione-Carlino-Giorno, 3 marzo). E va oltre: “Mi sono impegnato per dare una risposta al dolore dei parenti delle vittime” (Il Messaggero, 3 marzo); dubito che sia stato richiesto nei “quesiti” che, secondo prassi, la Procura rivolge ai consulenti.

Di fronte a questi importanti interrogativi vi è da augurarsi, questa volta più che mai, che il confronto con le difese possa concludersi in tempi rapidi. Altri, non i magistrati, potranno e, meritoriamente, dovranno applicarsi a “valutazioni scientifiche, epidemiologiche, di sanità pubblica, sociologiche, amministrative”. Nel frattempo manteniamo ben saldo il riferimento ai compiti e ai limiti rigorosi della giustizia penale: questo sì deve essere il messaggio da comunicare “alla gente”, evitando di indurre aspettative destinate, con ogni verosimiglianza, ad andare deluse. È anche rispetto per la “incommensurabilità” del dolore dei familiari delle vittime, che non deve essere posto a confronto con i limiti e la “misura” della giustizia penale.

“Il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione” (art. 112 Costituzione), ma, specularmente, il Pm ha “l’obbligo” di richiedere l’archiviazione quando non vi è “una ragionevole previsione di condanna” (art. 408 c.p.p.), evitando aggravi al sistema giudiziario, sconcerto nella pubblica opinione e inutili sofferenze agli indagati.