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di Francesca Del Vecchio

La Stampa, 27 aprile 2023

Lo psichiatra: “Le famiglie a volte non sanno o non possono cogliere i segnali di allarme. In colloqui di un quarto d’ora un terapeuta può solo prescrivere psicofarmaci”. “Alla cura mentale manca la “c” maiuscola, quella di cui parlava Battiato. Manca l’ascolto, l’attenzione. E il tempo. Non si può ridurre il compito del terapeuta al colloquio di 15 minuti. Serve una rete di aiuto. A partire dalla famiglia”. È l’opinione dello psichiatra Paolo Crepet in un’analisi allargata di ciò che è accaduto a Barbara Capovani, psichiatra uccisa a Pisa da un suo paziente.

C’è una emergenza sicurezza per chi fa questo lavoro?

“Ho i miei anni e di episodi come questo me ne ricordo diversi: è, purtroppo, un rischio del mestiere. Una percentuale piccolissima, seppur di difficile quantificazione, ma c’è. Sono cose che accadono perché si ha a che fare con l’ignoto e soprattutto perché nessuno è onnipotente. Quando ho scritto il mio primo libro, “Ipotesi di pericolosità”, confrontavo le esperienze delle persone sbattute in manicomio e di quelle che restavano fuori e che erano certamente più violente, in molti casi. Se parliamo di “pericolosità sociale” e di misure per contrastarla o prevenirla, per onestà andrebbe detto che, statisticamente, è più pericolosa la razionalità delle organizzazioni criminali. È un paragone estremo, ma serve per inquadrare il fenomeno. Certo, episodi come quello avvenuto a Pisa non si possono spiegare come “nati da una brutta giornata”. C’è sempre qualcosa di più profondo, dietro. Il compito della psichiatria è cercare di prevenire, lavorare sulle probabilità”.

Cosa intende?

“Neanche il Mago di Oz potrebbe dire con certezza che un adolescente bullo sarà un adulto assassino. Ma ciascuno di noi è stato adolescente. Chi commette una violenza lo è stato. E forse ha vissuto quella fase così inquietante della vita senza una rete di aiuto, come quella familiare, che non ha potuto o saputo cogliere i segnali d’allarme di una psicosi che di certo non si è manifestata all’improvviso. Ci occupiamo della violenza contro altri ma prendiamo, per esempio, la violenza contro se stessi: pensiamo a una ragazza di 12 anni che si lascia morire di fame. Non è di minore raccapriccio. Ma la colpa non può essere dello Stato, come ho letto da dichiarazioni della famiglia dell’uomo che ha ucciso la collega”.

Però, la sanità pubblica di certo non rende semplice il ruolo delle famiglie. Non è d’accordo?

“Dirò di più: non possiamo pensare che dalla chiusura dei manicomi a oggi, la strada per la cura della mente - e dell’anima - sia la lobotomizzazione del paziente con gli psicofarmaci. Attenzione, non sono contro la chimica. So bene che in alcuni casi è necessaria. Ma non da sola. L’ascolto e la chimica sono complementari. Ma se i colloqui con un terapeuta durano un quarto d’ora, è chiaro che in quel tempo non ho possibilità di approfondire, di chiedere al paziente della sua vita. Quella che è una risorsa - che poi si trasforma in terapia - viene a mancare. Dovremmo pensare a day hospital psichiatrici, che costano meno dei reparti ospedalieri, ma che sono presidi di riferimento costanti per le famiglie che vogliono portare un figlio quando esce da scuola o un parente adulto. Perché una regione non dissemina il proprio territorio di centri come questo? In un quarto d’ora, un terapeuta può quasi soltanto prescrivere psicofarmaci e passare al paziente successivo. La verità è che da quarant’anni a questa parte la psichiatria è stata lasciata sola a occuparsi dei pazienti. Perché c’è un interesse affinché il medico di base o la struttura sanitaria di igiene mentale consumino psicofarmaci”.

Si discute di residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems), di strutture di tutela per le persone affette da disturbi. Lei cosa ne pensa?

“Franco Basaglia (ispiratore della legge n.180/78 che dispose la chiusura dei manicomi, ndr) non era uno da pacche sulle spalle e “Viva la libertà”. Conosceva l’importanza di una terapia farmacologica, se necessaria. Ma chiudere i manicomi fu una decisione importantissima: c’erano 110 mila persone chiuse lì dentro. Senza diritti. Ma io che l’ho conosciuto, di quell’approccio rivendico l’attenzione alla libertà del paziente. Quella conquistata dalle persone uscite dai manicomi è stata terapeutica. Il pittore americano Jean-Michel Basquiat era un genio sregolato. Così come Van Gogh. Cosa avremmo dovuto fare con Basquiat, metterlo in prigione e lasciare che il suo genio artistico morisse in cella? Mi ricordo che quando morì Primo Levi molti di noi vennero accusati di averlo ucciso senza averlo curato. Non esiste uno psicofarmaco che cancelli la memoria dei lager. Bisogna comprendere che il dolore, la sofferenza mentale esistono. La psichiatria deve aiutare a conviverci. Da psichiatra io devo rispettare la creatività, il genio e l’unicità del mio paziente ma anche tutelare il microcosmo che lo circonda. Avrei voluto essere capace di aiutare prima quell’uomo che ha ucciso a bastonate la dottoressa. Perché parte di quel delitto è inscritto nella sua enorme solitudine. E i social ingigantiscono tutto: se uno è paranoico, da solo in balia della rete peggiora”.

Dopo la morte della psichiatra sono tornati in auge i gruppi social “antipsichiatria”. In alcuni di questi ci si rallegrava per la sorte della dottoressa: “Una in meno”. È un fenomeno di cui preoccuparsi?

“Tutto ciò mi fa molta tristezza. È una cosa odiosa. Ed è frutto di un cinismo e di una cultura antiscientifica che hanno trionfato in questa bella Italietta un paio di anni fa. Così come non ti fidi dello psichiatra, non ti fidi del medico di base che ti prescrive un farmaco o del chirurgo che ti opera. È un grido contro qualsiasi forma di assistenza. Ma tornare a curarsi con le ragnatele non è possibile”.