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di Luca Pakarov

Il Manifesto, 27 giugno 2024

Libri. “Jailhouse Rap” il volume di Patrizio Gonnella e Susanna Marietti. Le biografie dei rapper di frequente si legano al carcere, le loro stesse canzoni narrano in prima persona l’esperienza nei luoghi di detenzione o di come ci sono arrivati. Il che però è una conseguenza delle diseguaglianze sociali, il carcere statisticamente è frequentato dai poveri, se a questa considerazione aggiungiamo che rap o trap sono una delle espressioni delle classi popolari, si riesce facilmente a tracciare la circolarità del fenomeno. Una concatenazione che c’è in ogni latitudine come chiaramente emerge nel libro Jailhouse Rap. Storie di barre e sbarre (Arcana, pp. 183, 16 euro), scritto da Patrizio Gonnella e Susanna Marietti, presidente e coordinatrice dell’Associazione Antigone, l’organizzazione no-profit che monitora la situazione nei penitenziari italiani e allo stesso tempo tutela i diritti dei detenuti. Un lavoro inestimabile e di cui questo libro è un piccolo ma significativo tassello.

Droga, evasione fiscale, armi e violenza sono i motivi formali che specialmente negli Usa conducono i rapper in galera, nel libro sotto la lente finiscono le vicende anche di artisti che macinano milioni di dollari, con una notorietà che supera l’Oceano, ma dietro al successo c’è sempre la povertà e quasi sempre la discriminazione razziale. I portoni blindati si chiudono alle spalle delle future star fin dalla giovanissima età, alcuni semplicemente perpetuano ciò che hanno sperimentato nel contesto in cui sono cresciuti. Nel libro tanti sono gli artisti presi in esame, dal caso emblematico dei Public Enemy che hanno scritto pezzi memorabili contro la discriminazione razziale, basti pensare che alla morte di George Floyd gli ascolti del pezzo Fight the Power sono aumentati del 90 per cento, passando per le vicende degli Assalti Frontali e dei 99 Posse, oppure incrociando le storie di Eminem, 50 Cent, 2Pac, si ravvisa come il rap sia prima di tutto una forma di espressione del dissenso. Sì, anche quando ostentano orologi d’oro, supercar e pistole. Storie di artisti, diseguaglianze sociali e discriminazione razziale

In barba al primo emendamento e quindi alla libertà di espressione, gli stessi testi dei brani vengono usati dai procuratori per accusare i rapper, come nel caso di Young Thug, recluso nella Fulton Country Jail di Atlanta, incriminato per aver violato il Racketeer Influenced and Corrupt Organizations, una legge per contrastare il crimine organizzato, tra le prove appunto i testi, come se fossero una riproduzione fedele della realtà e quindi una confessione dei crimini commessi. Al punto tale che lo Stato di New York nel 2022 approva il Rap Music on Trial Bill, un disegno di legge che limita l’uso dei testi rap nei processi penali.

Diverse sono le ragioni di rapper come il tunisino El General che denuncia gli abusi della polizia (con conseguenze immaginabili) o di Emino, sempre tunisino che critica il governo e la dittatura ma dopo otto mesi di carcere scompare. È il 2015, si radicalizza e annuncia di essersi unito all’Isis, viene ucciso a Mosul nel 2017. Esempi di come la musica rap viene criminalizzata e di come il carcere stravolge le esistenze di chi vi entra. Basti pensare ai casi Jordan Jeffrey Baby, trapper morto suicida nel carcere di Pavia, e a Jhonny Cirillo, stessa fine nel carcere di Salerno.

Come sappiamo è il carcere il primo a non rispettare le regole, ci sono regole non scritte, gli abusi possono essere all’ordine del giorno nei luoghi in cui una struttura verticale stabilisce l’ordine, lo sa bene Chicoria che, dopo 15 mesi di detenzione, inizia a raccontare la sua vicenda nelle scuole e a collaborare con Antigone. Con Jailhouse Rap ci addentriamo in queste esistenze liminali fra palco e sbarre.