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di Gianluca Nicoletti

La Stampa, 5 gennaio 2024

Le critiche di protagonismo al padre di Giulia sono stereotipi della tragedia classica. C’è chi invoca una dimensione “punitiva” del dolore, ma giudicarlo è sbagliato. Quando la collettività si pone di fronte a forme di elaborazione “attive” di una sofferenza, il giudizio è sempre implacabile. Non si tollera l’uscita dai canoni tradizionali dell’afflizione che impongono riserbo, silenzio, annientamento.

Nemmeno nell’epoca della cultura digitale, in cui ognuno avrebbe pieno diritto di costruire liberamente una propria epica individuale, è ammessa la scelta di strumenti personalizzati di elaborazione del proprio lutto. Guai a uscire dallo stereotipo della tragedia più classica, con la vedova inconsolabile, il padre annichilito dal dolore, i figli che non si daranno mai pace.

Il Canonico napoletano Carlo Celano (1617-1693) descrive in una sua cronaca quello che la regola sociale del cordoglio, al suo tempo, imponeva a una vedova. L’idea fondamentale era che la donna dovesse essere punita; veniva innanzitutto affumicata bruciando paglia umida di modo che restasse completamente annerita negli abiti e nel volto. Ogni altra donna che entrava nella casa per la veglia funebre, le strappava una ciocca di capelli e la buttava sul cadavere del morto. Le ultime arrivate, che la trovavano pressoché calva, la graffiavano fino a portarle via pezzi di pelle da porre sul marito morto. Per svolgere questa operazione di scarnificazione si erano precedentemente affilate le unghie sui manici delle zappe. Nel caso di morte violenta in più la donna doveva ostentare gli abiti insanguinati della vittima, invocando i figli a vendicare il padre. Subiva lo stesso trattamento, però distesa con le chiome sciolte accanto al cadavere dell’ucciso.

Tre secoli e mezzo dopo la perfetta elaborazione collettiva di un lutto è ancora condizionata dalla memoria recondita di un’ancestrale giustificazione antropologica, che era alla base di quel barbarico rituale. Ogni condivisione pubblica del cordoglio continua a essere influenzata dalla necessità di una dimensione “punitiva” del lutto. Non è intimamente tollerabile altra risposta, se non quella rituale dell’annichilimento e mortificazione, come se fosse ancora considerata una colpa il sopravvivere alla perdita di una persona cara.

Il perbenismo bigotto dei primi anni del dopoguerra era naturalmente infarcito di questo giustizialismo per omessa ostentazione di sofferenza. Si consegnavano al furor di popolo dei rotocalchi i vip, soprattutto donne, che si ricostruivano vite spensierate dopo essere state icone di sofferenza. Si ricordi tra tutte Jacqueline Kennedy, poi Onassis, a cui stava colpevolmente stretto il ruolo forzato di vedova del “Presidente buono”.