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di Daniele Zaccaria

Il Dubbio, 6 novembre 2023

La battaglia per liberare se stesse ha portato le donne a porre il problema universale del potere, simbolico e costituito, la messa in discussione delle leggi e della tirannia dentro e oltre il femminismo. La prima disobbediente della Storia è semplicemente la prima donna di cui si ha notizia: Eva, o più precisamente H’aWaH, il nome palindromo che nella Genesi viene assegnato alla madre dell’umanità. Eva la “traditrice” che si lascia sedurre dal demonio, assapora il frutto del peccato nel giardino dell’Eden, dividendo la mela con il compagno e condannando così il genere umano al dolore e alla sofferenza. Eva la suddita, creazione secondaria e posteriore all’uomo, il “secondo sesso” nato dalla costola di Adamo addormentato e per questo di natura inferiore e costretta a vivere all’ombra del maschio, nell’ordine biologico come in quello sociale. Ma anche la donna responsabile di tutti i nostri mali, travolta dalla curiosità che le fa smarrire saggezza e ragione, che cede alla tentazione satanica e diventa sua volta infida tentatrice. La porta del Diavolo parafrasando Paolo di Tarso.

È l’interpretazione letterale e doppiamente misogina che ne danno le religioni del Libro, sia dal punto di vista della creazione e che da quello della “caduta” la quale per millenni ha giustificato e sostanziato un sistema che, a ogni latitudine, ha consegnato all’uomo il monopolio del potere e della forza. Dall’antichità fino ai nostri giorni. Ma in ogni mito coesiste una stratificazione di significati non univoci e persino il racconto biblico del nostro paradiso perduto può essere interpretato al rovescio, attraverso estrapolazioni meno dogmatiche e facendo parlare un po’ l’inconscio delle Scritture.

Dopo aver colto il frutto proibito Eva fa infuriare il Signore, destinando il suo compagno a “lavorare con sudore” e lei stessa a “partorire con dolore”, ma quella condanna è in fondo ciò che ci ha resi completamente umani, che ci ha scaraventati lontani dall’Eden per realizzare la nostra irriducibile natura. Già negli anni sessanta la francofona Scuola biblica e archeologica di Gerusalemme vede nella disobbedienza di Eva un tentativo di appropriarsi della ragione, la mela viene colta dall’albero della conoscenza “del bene e del male”, laddove bene e male sono una metonimia per indicare la totalità dello scibile e la mela un oggetto “desiderabile per acquisire l’intelletto”. Non si tratta di curiosità malsana e morbosa ma del desiderio di conoscere e comprendere, che forma e completa l’essere umano e che è anch’essa una finalità della creazione.

Quel gesto di ribellione, quella “voglia di conoscenza” tutta femminile, è il prologo incompiuto di una liberazione che ha iniziato a prendere corpo soltanto nell’età moderna ma che nel corso della Storia si è incarnata nel coraggio e nell’intelligenza di donne “disobbedienti” che hanno sfidato i poteri maschili spesso mettendoli in crisi o comunque svelandone l’arbitrio e la prevaricazione. Non un album di figurine virtuose, un catalogo inerte di santini, ma una schiera indomita di ribelli che hanno tracciato la linea prima immaginaria, poi reale dell’emancipazione. Pagando spesso con un tributo pesantissimo l’aspirazione a voler vivere e realizzare i propri talenti come gli uomini.

Prendiamo il barbaro omicidio della filosofa e matematica Ipazia (le vennero cavati gli occhi, il corpo tagliato a metà e le ceneri sparse in tutta la città), assassinata dai cristiani di Alessandria perché invidiosi e spaventati dalla sua eloquenza, dalla sua passione per l’insegnamento e dal suo libero pensiero. L’uccisione di Ipazia ci porta nel cuore del fanatismo religioso che si costituisce come sistema di dominio tetragono e interamente maschile, la ferocia con cui venne fatta a pezzi traduce la paura che ogni regime ha della libertà scoprendo le fragili fondamenta filosofiche della discriminazione.

La battaglia per liberare se stesse dall’oppressione ha portato le donne a porre il problema universale del potere, simbolico e costituito, la messa in discussione delle leggi e della tirannia, dentro e oltre il femminismo. È il caso di Antigone, la protagonista della tragedia di Sofocle che disubbidisce al re di Tebe Creonte che aveva negato la sepoltura al fratello Polinice e affronta il suo drammatico destino accusando il tiranno di violare le leggi non scritte della polis ideate dagli dei, di non essere amato ma solamente temuto dai sudditi: “Tutti costoro direbbero di approvare il mio atto, se la paura non chiudesse loro la lingua. Ma la tirannide, fra molti altri vantaggi, ha anche questo, che le è lecito fare e dire quel che vuole”.

Come Eva nell’ordine sociale giudeo-cristiano, anche Antigone è un archetipo della disobbedienza femminile nel mondo pagano, una figura che dialoga direttamente con la contemporaneità, tratteggiando la moderna idea di democrazia e di diritto, senza dubbio Antigone è un archetipo femminista tanto che Sofocle descrive così lo smarrimento di Creonte di fronte a una donna così tenace e coraggiosa, facendogli negare la sua stessa natura: “Costei è un uomo se quest’audacia le rimarrà impunita”, ma allo stesso tempo la sua critica dell’autorità e del dispotismo tocca il fondamento universale dell’oppressione lo schema gerarchico dal quale nasce anche il patriarcato.

Ci sono voluti più di due millenni perché le nostre società mettessero in discussione la dominazione maschile e anche nei periodi più luminosi, dal Rinascimento all’Illuminismo, la conquista dei diritti ha sempre visto l’esclusione delle donne (pensiamo al diritto di voto negato ovunque fino al XX Secolo), cadevano i re e l’aristocrazia, cadevano i privilegi dell’ancien regime spazzati via dalle rivoluzioni, ma il timone rimaneva saldamente nelle mani degli uomini. Anzi, quando qualcuna ha provato a strapparlo quel timone, la rappresaglia è stata feroce. Come nel caso della drammaturga e intellettuale francese Olympe de Gouges che in pieno fervore rivoluzionario (1791) scrisse la Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina in cui affermava la totale uguaglianza politica e sociale tra l’uomo e la donna e addirittura il diritto al divorzio.

L’égalité non era forse uno dei pilastri della Rivoluzione giacobina assieme alla libertà e alla fratellanza? Non la pensava così Robespierre che non solo rigettò con sprezzo la dichiarazione, ma fece chiudere tutti i club e le associazioni femminili. Poiché de Gouges aveva più volte criticato gli eccessi del Terrore, la furia cannibale con cui i giacobini si stavano trucidando tra di loro, quella Rivoluzione che finisce per “mangiare i suoi figli” come disse un’altra donna celebre di quel periodo, Charlotte Corday.

La reazione di Robespierre e soprattutto di Marat (il compilatore compulsivo delle liste di proscrizione dei controrivoluzionari) fu di spedire Olympe de Gouges direttamente alla ghigliottina “per aver dimenticato le virtù che convengono al suo sesso ed essersi immischiata nelle cose della Repubblica”.

È stato un cammino penoso quello che ha portato all’emancipazione, le donne hanno infatti dovuto lottare contro i loro nemici storici ma anche diffidarsi degli amici, compagni di viaggio nello sfidare l’oppressione politica ed economica e nel costruire la democrazia o nell’inseguire utopie socialiste ma ben poco disposti a condividere il potere, anche negli ambienti più illuminati e libertari. La lotta delle suffragette inglesi guidate alla fine del Settecento da Mary Wollstonecraft per ottenere il diritto di voto è stata luminosa ma spesso solitaria se si esclude qualche uomo di modernissime vedute come l’economista e filosofo John Stuart Mill, grande sostenitore del suffragio universale. Bisogna infatti aspettare il 1918 perché il governo di Londra autorizzi il voto femminile alle elezioni nazionali. Insomma viva le donne, ma che rimangano “al posto loro”.

Una che al suo posto non ci è saputa e non ci è voluta proprio stare è Rosa Parks, il simbolo della lotta contro la segregazione e il razzismo della comunità afroamericana negli Stati Uniti, non una femminista in senso stretto. Montgomery, Alabama, primo dicembre 1955, Parks stremata da una giornata di duro lavoro si rifiuta di cedere il suo posto sull’autobus a un bianco che le ordina di alzarsi. Lo fa ben due volte, con educazione e fermezza.

L’autista ferma l’autobus, si avvicina alla donna e le ripete di lasciare il posto e al terzo rifiuto chiama la polizia che l’arresta immediatamente. Un gesto che poteva passare inosservato nella società razzista del sud degli Usa ma che invece acceso la scintilla del movimento per i diritti civili dei neri americani. La sera stessa migliaia di persone guidate dal giovane reverendo Martin Luther King scendono in piazza per protestare: nella sua comunità Rosa non era una tipa qualunque ma una protagonista della sua comunità, una networker, istruite e politicamente impegnata, Parks aveva un talento fuori dal comune nel costruire reti e relazioni e godeva di grandissima stima, anche tra i pochissimi bianchi non razzisti che aveva conosciuto, tra i quali Clifford Durr, l’avvocato “liberal” che pagò la cauzione e la riportò a casa il giorno dopo l’arresto.

Nella città di Montgomery viene organizzato un boicottaggio dei mezzi pubblici che durerà oltre un anno, fino a quando le leggi sulla segregazione saranno abolite dal Congresso: i posti riservati sugli autobus non ci saranno più mentre le scuole e le università aprono le porte ai giovani afroamericani. Ci vorranno ancora decenni per raggiungere la piena uguaglianza di diritti (ma non quella economica) e ancora oggi nel cuore di tenebra dell’America risuonano le eco della segregazione (basta pensare ala violenza della polizia, una piaga tutt’altro che debellata), ma il solco era stato tracciato. Il piccolo grande gesto di Rosa Parks è una rivincita della Storia che affida alla voce di una donna il compito di riscattare i diritti di tutti e di disegnare un modello potente e non violento di disobbedienza civile. Come Antigone, anche Parks si è ribellata all’ingiustizia delle leggi, ma invece di trovare la morte, ha conquistato la libertà, per se stessa e per tutti noi.